Re: “Funeral Party” Di Liudmila Ulitskaja
Liudmila Ulitskaja «Funeral party»
Recensione di Giulia Marcucci. eSamizdat 2005 (III) 1, pp. 260-262
In un angusto e quasi soffocante loft newyorchese si assiste a un continuo viavai di personaggi bizzarri: emigrati russi, per lo più donne (accomunate dall’amore per il pittore Alik), un rabbino, un pope, musicisti paraguaiani, medici americani, impresari delle pompe funebri. Tutti ruotano attorno all’artista, in fin di vita per una forma progressiva e incurabile di paralisi; a prendersi cura di lui, in particolare, è una schiera di crocerossine morbose, ciascuna con il proprio compito e una personalità distinta. È questo il pretesto di cui si serve L. Ulickaja per presentare una realtà sdoppiata tra il presente del loft e il passato sovietico dei personaggi rivissuto attraverso il ricordo e il sogno. Basta un dettaglio perché la scrittrice distolga l’attenzione dal tema centrale e narri antefatti e vicende collaterali con una intonazione umana non priva di quegli spunti ironici che caratterizzano il suo stile. L’ambientazione newyorkese di Funeral party è ispirata a una esperienza vissuta in primis dall’autrice, come da lei stessa affermato in un’intervista del maggio 2003: “questo romanzo breve è legato a una parte piuttosto significativa della mia vita. I miei figli hanno vissuto in America per dieci anni. Di anno in anno andavo a trovarli e vivevo con loro, in modo molto frammentario e molto selettivo, l’immigrazione americana. Frequentavo sempre le stesse persone. Per dieci anni ho osservato l’evoluzione dei rapporti, dei soggetti, dei destini...” (<http://www.litwomen.ru/autogr23.html>).
L’incipit dominato da creature femminili lascive e sensuali potrebbe suscitare nel lettore il sospetto di trovarsi di fronte a un esempio di vacua ženskaja proza [prosa femminile]. Per fortuna non è così, basti pensare a Irina, vero e proprio esempio di eroina del realismo socialista, la quale sembra nascere dall’incontro dei tratti di Marion e Tanja, le interpreti delle allegre commedie musicali firmate da G. Aleksandrov, Cirk [Il circo, 1936] e Svetlyj put’ [Il radioso avvenire, 1940]. Con la prima ha in comune l’appartenenza al mondo circense, per il quale l’autrice sembra nutrire una spiccata simpatia, con l’altra la tenacia e la determinazione che farà guadagnare a Irina il successo professionale in America. Non come circense, bensì come avvocato (notare che sarà lei a mantenere Alik e moglie). In ogni pagina emerge il rapporto tra la Russia, che i frequentatori della “casa sconclusionata” (p. 90) si sono lasciati alle spalle, e l’America in cui si sono ritrovati. Il loft è una Russia in miniatura, in cui tutti seguono uno stile di vita tipicamente nazionale: non si beve thè americano; nel frigorifero si trova “pane nero, in un sacchetto di carta del negozio russo” (p. 29); le creme per il corpo usate dalla moglie di Alik, Nina, vengono spedite da Mosca, perché lei “non si fidava di quelle locali” (p. 103); in occasione del banchetto funebre organizzato in memoria del pittore “Libin raccoglieva soldi, secondo la vecchia tradizione russa” (p. 138). Il made in Usa, invece, è connotato con disprezzo, in diretto riferimento alle proprietà consumistiche in esso racchiuse (si veda l’ironia nei confronti della tecnologia americana, rappresentata da un computer: “‘roba americana’, sogghignò Barman, ‘non vuole saperne di lavorare gratis...’”, p. 39). Tuttavia nella prosa di Funeral party non troviamo mai un punto di vista unico e basta voltare pagina per imbattersi in altri personaggi portatori di un differente modo di vivere la condizione di sradicamento dalla počva [suolo]. Alik, il cosmopolita, sta bene ovunque; Irina non ha bisogno di elementi che giustifichino la scelta dell’emigrazione e vive con disinvoltura tale realtà.
Al mondo dello spazio proprio l’autrice sembra voler contrapporre quello dello spazio čužoe [altrui] che filtra da una finestra somigliante all’omonima del film girato nel 1993 da J. Mamin, Okno v Pariž [Una finestra su Parigi] in cui, in modo altrettanto bislacco, veniva presentata l’esperienza di un gruppo di russi improvvisamente calati in un mondo opposto a quello natio. Ma gli elementi dell’esteriorità disturbano il malato, come quella fastidiosa musica latinoamericana suonata per strada da un gruppo di paraguaiani; quando questi entreranno nell’appartamento, nella Russia in miniatura, e diverranno parte dello spazio svoe [proprio], la loro musica avrà un effetto nuovo, rasserenante e conciliante. Il finale offre poi lo spunto per un altro parallelismo: l’annuncio della morte di Alik segue la notizia degli sconvolgimenti storici e dei disordini di Mosca alla vigilia del crollo dell’Unione sovietica.
Le accuse mosse a Funeral party di banalità, semplicità, eccessivo appiattimento realistico (I. Kirillov, “‘Kolbasa kosy’ Ljudmily Ulickoj”, Zavtra, 2000, 14; V. Juzbašev, “L. Ulickaja, Veselye pochorony”, Znamja, 1998, 11) suscitano qualche perplessità. Il legame con le opere precedenti, in particolare Sonečka [Sonja, Roma 1997] e Medea i ee deti [Medea, Torino 2000], è evidente sia a livello di personaggi che di motivi trattati: la figura centrale di un personaggio maschile, generalmente un dongiovanni appartenente al mondo delle arti; donne a lui succubi e altre con una personalità più distinta; tradimenti, tentativi di suicidi, presenza di un figlio segreto... Tuttavia, la scrittrice non scade mai in stucchevolezze fini a se stesse, rivelandosi padrona delle situazioni narrate, sostenute nel caso specifico di Funeral party da una lingua eterogenea, mescolanza di registri differenti. Elementi del linguaggio colloquiale e popolare (questi ultimi non sempre adeguatamente resi nella traduzione italiana), di turpiloquio, diminutivi e anglicismi con funzioni differenti si intrecciano e contribuiscono sia all’arricchimento della caratterizzazione del personaggio che a dar spessore al tessuto narrativo. Mar’ja Ignateva, l’anziana fattucchiera rubiconda, viene descritta con pennellate così nitide che non è difficile collegarla a un’immagine reale, inoltre alla caratterizzazione esteriore fa da pendant un modo di parlare marcatamente popolano, che si distingue da quello della giovane Valentina, in cui a interferire sono gli anglicismi.
Il destino di Alik è segnato sin dall’inizio, tuttavia Ulickaja ci convince che è possibile fare qualcosa qui, in terra, in modo da rendere meno cupi gli ultimi istanti di vita di una persona che abbiamo amato. Chissà perché la semplicità viene spesso associata dalla critica a una bassa qualità, così come si tende a ritenere banale una rappresentazione del vissuto esistenziale con qualche concessione al sentimentalismo, ma non ai giochi con gli intertesti di altri tempi e di altre culture, procedimento tanto in voga tra scrittori della stessa generazione della Ulickaja.