Un mio amico mi ha raccolto alcune recensioni italiane del film
le ricopio senza commento
ciao
zhenja
L'ECO ARCA
Raccontare e comunicare la sofferenza in una fase di decadenza del sistema: sembra essere questo l’intento chiaramente percettibile durante la visione di Cargo 200, il cui titolo esprime già una sconfitta, essendo il nome in codice del carico che trasportava i caduti russi nella guerra tra Unione Sovietica ed Afghanistan.
Un film sicuramente crudo e dai toni forti: non ci sono mezze misure, o lo ami o lo odi, e i pochi applausi in sala lo dimostrano pienamente.
Un professore di ateismo scientifico che si scontra con un contadino produttore di vodka cristiano, un vietnamita che parla il russo e che si occupa di versare vodka e innaffiare l’orto, la figlia del capo del partito e il suo fidanzato paracadutista: sono alcuni dei personaggi di quest’ultima e bizzarra fatica di Aleksej Balabanov, intrecciati in una trama grottesca e piena di violenza ma che riesce senza alcun dubbio a suggestionare il pubblico e trasmettere quella sensazione di insofferenza che provava il popolo russo.
Azzeccata la colonna sonora che riesce a smorzare i momenti più faticosi del film e contribuisce fortemente a rendere insolita quest’opera. Nel complesso non è fuori luogo definirla una pellicola difficile da capire, ma da interiorizzare.
CLOSE-UP
Venezia 64 - Gruz 200 (Cargo 200) - Giornate degli autori venerdì 31 agosto 2007 di Matteo Botrugno (Gruz 200); Regia e sceneggiatura: Alexey Balabanov; fotografia: Alexander Simonov; interpreti: Alexey Serebryakov (Alexey), Leonid Gromov (Artyom), Yuri Stepanov (Mikhail), Agniya Kuznetsova (Angelika), Alexey Poluyan (Zhurov), Mikhail Skryabin (Sunka); produzione: CTB Film Company; origine: Russia, 2007; durata: 89’
Il nuovo cinema russo, recentemente relegato solo nell’ambito dei festival, oltre a dar prova di essere caratterizzato da una vivace originalità, riesce ad essere profondamente fedele alla tradizione e, allo stesso tempo, a fondere le più diverse influenze del cinema contemporaneo. In pochi anni abbiamo assistito a prove notevoli di artisti russi emergenti, come Vyrypaev con lo struggente Ejforja, Lounguine con The Island e Serebrennikov, trionfatore alla Festa del Cinema di Roma con l’ottimo Playing the victim.
Cargo 200: ovvero le bare dei soldati caduti durante la guerra fra Unione Sovietica ed Afghanistan nella prima metà degli anni ’80. Cargo 200, ovvero gli ultimi passi verso il baratro di un sistema politico-economico che sarebbe collassato di lì a poco. Cargo 200, ispirazione per un film morboso, psicotico, disturbante. Ogni personaggio è costruito in modo tale da rappresentare il disagio di un imminente cambiamento. “Qui le cose cambieranno”, sosterrà il condannato a morte prima dell’esecuzione. Non si tratta solo della rassegnazione di un condannato, ma della certezza di un cittadino sovietico alla ricerca del Dio che gli viene negato.
Il lavoro di Balabanov non parla direttamente di comunismo, esattamente come il film Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes, 4 mesi 3 settimane 2 giorni. Il regista russo punta a raccontare una storia che ha per protagonista un poliziotto sovietico completamente folle, che rapisce una ragazza e, oltre a violentarla con bottiglie di vodka e farla violentare da altri individui, la tiene imprigionata nella sua casa fatiscente in cui vive con la madre alcolizzata e teledipendente. Diverse storie si susseguono in Gruz 200: le indagini di un professore universitario ateo, la follia di una donna che cerca di vendicare la morte del marito, un ragazzo che, pur sfoggiando una maglietta con la scritta CCCP, è palesemente rivolto verso la nuova Russia, quella del capitalismo, dell’influenza musicale occidentale, del crescente disagio giovanile. Piccoli esseri umani che zoppicano sul suolo di uno stato morente, sullo sfondo di una Leninsk quanto mai grigia e fumosa.
Chi sono questi individui? Anche se all’apparenza le vicende del film ruotano intorno a psicosi e vendette, ogni personaggio è disegnato in modo tale da rappresentare un tassello di un impero in totale disfacimento. Il lavoro di Balabanov non implica però riferimenti all’opera di autori come Alexandr Solzenicyn: il regista lascia la libertà di trarre le conclusioni che si credono. Appare tuttavia evidente la volontà di mostrare quel mondo disperato, quell’angoscia per le morti dei cittadini, quella falsità evidente di polizia ed esercito, quell’ipocrisia che genererà la vicenda, realmente accaduta, che diviene simbolo della violenza subita dal popolo in quasi settant’anni di regime sovietico.
L’alternanza di canzoni pop tradizionali e musica rock e punk, mette ancor di più in risalto i riferimenti al delicato passaggio di poteri. La madre del poliziotto osserva in silenzio un intervento in tv di Ligaciov, oppositore della Perestrojka di Gorbaciov. Alcune inquadrature insistite sul ferro e il fumo di Leninsk, soffocano, intrappolano. Brutalità e psicosi non sono solo i tratti di un regista che confeziona un lavoro violento e provocatorio mai fini a se stesse, ma quanto mai chiavi di volta per osservare, ormai da lontano, un mondo che non esiste più, ma che è ancora vivo nella coscienza del popolo russo. E rievocarlo aiuterà a comprenderlo.
NONSOLOCINEMA
Giornate degli Autori
"Cargo 200 (Gruz 200)" di Alexey Balabanov
Ritratto della violenza in Russia alla fine dell’era sovietica
Articolo di Maria Conte
Pubblicato mercoledì 29 agosto 2007 - NSC anno III n. 23
Un film intenso, a tratti simbolico, ma soprattutto aggressivo e crudo apre la sezione delle Giornate degli Autori alla 64esima Mostra del Cinema di Venezia. Parte del pubblico si è fremato, incuriosito e impressionato, a porre domande al regista Alexey Balabanov, contento del successo che il suo film ha già avuto in Russia.
1984. In un paesino della provincia di Leningrado un professore di ateismo sovietico in visita da parenti capita per caso in una casa immersa della campagna e il giorno dopo scopre che quella stessa notte in quel luogo è stato ucciso un uomo e due ragazzi sono scomparsi. Così comincia questo quadro della Russia allo sfacelo, che si incrementa sempre più tra corruzione, follia e torture, ingiustizie giudiziarie e sottrazione di cadavere. I cargo 200 che danno il titolo all’opera sono infatti bare di soldati morti in Afghanistan che spesso scompaiono senza traccia. Lo stesso autore ha sottolinato più volte la sua intenzione di realizzare attraverso il suo film un affresco della Russia nei primi anni 80 mettendo ben in evidenza le problematiche di quel periodo, in cui il suo paese era "morto".
Tutti gli eventi si rifanno all’esperienza dello stesso regista in quegli anni e alle testimonianze raccolte dalle sue ricerche come documentarista. Anche l’immaginazine dell’autore di Brother ha avuto la sua parte nella costruzione di questo film dalla trama fluida e coinvolgente, che cattura soprattutto grazie alla crudezza degli eventi. Con uno stile elegante e tagliente Balabanov riesce a descrivere attraverso immagini forti e una ricostruzione curata, anche nelle musiche, un momento storico del suo paese particolarmente difficile e al limite del caos, senza cadere in facili esagerazioni.
Pessimismo intrinseco e l’accusa di mancanza di morale si possono smentire mettendo in risalto il finale, in cui il personaggio del professore si riavvicina alla fede, nel tentativo di recuperare una normalità che gli eventi gli avevano completamente infranto. In Russia il film è già uscito con un ottimo successo di pubblico, scatenando accese polemiche e altrettanti entusiasmi. Si tratta di un tipo di ricostruzione utile per mostrare e far comprendere allo spettatore lo stato di una società in cui i valori venivano completamente a deteriorarsi.
FRAMEONLINE
Gruz 200, di Alexey Balabanov
(Cargo 200, Russia 2007, 89'; con Alexey Serebryako, Leonid Gromov, Yuri Stepanov)
Link:
www.gruz200.ru/main/
Non va di certo per il sottile Alexey Balabanov con Gruz 200, presentato a Venezia 64 nelle Giornate degli autori - Venice Days, ritratto a dir poco impietoso dell’Unione Sovietica pre-Gorbaciov, segnato da un iperrealismo di fondo venato da un’ironia che a tratti sfocia platealmente nel grottesco. Lo sfondo su cui si muovono i tipi umani scelti dal regista-sceneggiatore è quello della provincia sovietica appena fuori da San Pietroburgo, una terra di nessuno desolata e cadente dove la fanno da padroni poliziotti psicopatici, militari corrotti, contrabbandieri-filosofi e teppisti disillusi. Il racconto intreccia, a tratti un po’ troppo ellitticamente, i percorsi, le traiettorie di vari personaggi, trascinandoli in un crescendo di follia verso un vero e proprio baratro di aberrazioni sempre più raccapriccianti, che li privano anche di quel barlume di umanità che parevano possedere in partenza.
Del resto, fin dalle prime battute, il dialogo tra due fratelli (l’uno militare di carriera, l’altro docente universitario di ateismo) Balabanov chiarisce quale sia la cornice storica e il clima politico-sociale nel quale ci troviamo: Andropov è morto da poco, i segni del crollo del sistema comunista si fanno via via
più visibili e stridenti e, tra questi, l’Armata rossa impantanata nella guerra in Afghanistan che ormai tutti danno per persa è il più evidente. I soldati che tornano dal fronte nelle bare sono sempre più numerosi ma, in fondo, alla popolazione ciò non sembra importare poi molto, dato che sono altre le preoccupazioni quotidiane: sopperire alla carenza di viveri, innanzitutto, oppure, come fanno i più giovani, sottrarsi alla leva iscrivendosi all’università per poi spassarsela in discoteche improvvisate o tentando scorciatoie per arricchirsi il più rapidamente possibile.
Su questo sfondo storico così preciso Balabanov è abile nel sovrapporre, dapprima in maniera quasi impercettibile, poi sempre più grevemente, una vicenda a metà strada tra il giallo e l’horror che vede un poliziotto dallo sguardo impassibile segregare e sottoporre a ogni genere di aberrazione la giovane fidanzata di uno dei militari morti in Afghanistan. Il corpo di quest’ultimo, ironia della sorte, sarà affidato proprio all’agente che, invece di dargli una sepoltura con tutti gli onori come richiesto dalle circostanze, gli permetterà di ricongiungersi con la ragazza in un ultimo macabro abbraccio.
Dopo un po’ diviene evidente come ognuno dei personaggi in scena sia in fondo la metafora di un’Unione Sovietica che, a quei tempi (siamo nel 1984), nessuno avrebbe potuto immaginare così: il cadavere in decomposizione del soldato morto è il simbolo di un esercito un tempo glorioso ma ormai in disfacimento, le aberrazioni compiute dal poliziotto sulla ragazza sono quelle perpetrate all’epoca dal kgb sul corpo di una nazione rosa dal sospetto e dalla paura, il vitalismo sfrenato ma già fasullo dei teenager vogliosi di guadagnare senza fatica è l’indizio di quel desiderio di ricchezza che sfocerà in tutta la sua volgarità nel corso degli anni Novanta, il professore di ateismo che continua a negare l’esistenza di Dio e dell’anima ma che, nel finale, ritroviamo in una chiesa a chiedere di essere battezzato, è l’icona di una liturgia laica divenuta ormai caricaturale.
Al termine del film ci si chiede che senso abbia una rappresentazione tanto crudele quanto cinica (ma in fondo fredda, diretta, mai compiaciuta o ridondante) di un’epoca ormai archiviata, anche se, la precisione dei riferimenti storici (dallo schermo di un televisore fa la sua fulminea comparsa perfino Gorbaciov, all’epoca ancora sconosciuto ai più), lascia il sospetto che il tutto sia un pretesto bello e buono (si fa per dire) per parlare della Russia di oggi, in fondo non così diversa dall’Unione Sovietica di ieri.
Fabrizio Colamartino, 30/08/2007
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ZHENJA