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«LA CHIESA ORTODOSSA RUSSA»
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Messaggio «LA CHIESA ORTODOSSA RUSSA» 
 
Vi propongo la lettura di un interessante capitolo dedicato alla Chiesa Ortodossa, tratto dal libro "La vita quotidiana in Russia al tempo dell'ultimo Zar". E' un po' lungo, ma è di estremo interesse e vi garantisco che ne vale la pena.

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Per descrivere la vita quotidiana nella Russia del 1903 al tempo dell’ultimo Zar, Henri Troyat (1911-2007) - accademico di Francia, ma russo di nascita, notissimo scrittore di storia particolarmente attento alle vicende del suo Paese di origine - immagina che un giovane, Jean Roussel, figlio di mercanti parigini benestanti, intraprenda un viaggio a Mosca dove verrà accolto dalla famiglia Zubov. Il pretesto letterario consente a Troyat di presentare un articolato spaccato della vita russa dell’epoca, di poco precedente alla Rivoluzione del 1905, in un continuo confronto con le esperienze maturate da un giovane borghese parigino.


LA CHIESA ORTODOSSA RUSSA


Anche se esisteva una chiesa cattolica francese a Mosca, la chiesa di San Luigi, Jean Roussel, che era libero pensatore, non sentiva il bisogno di frequentarla. In compenso, trovava naturale accompagnare la famiglia Zubov, ogni domenica alla messa ortodossa. Gli sarebbe parso di tradire i suoi doveri di turista rifiutando di partecipare a questi atti di fede collettiva che rivelano l’anima di una nazione. Al di là di ogni considerazione filosofica, egli apprezzava il nobile fasto della liturgia russa. Gli spiaceva soltanto che per tutta la durata dell’ufficio i fedeli dovessero stare in piedi: non c’erano né panche né banchi nella vasta navata della chiesa del Salvatore dove gli Zubov di solito si recavano. La chiesa, costruita in memoria della liberazione di Mosca del 1812, era a croce greca: quattro enormi pilastri sostenevano il corpo centrale dominato dall’immagine del Dio degli eserciti. Tutto attorno alla navata, in una galleria, lapidi di marmo ricordavano i nomi degli eroi caduti sotto il fuoco dei francesi e delle battaglie in cui Napoleone era stato sconfitto. L’iconostasi a più piani era anch’essa di marmo, di un candore abbagliante, irreale. L’oro ruscellava dappertutto, nelle nicchie, nelle balaustrate e lungo le colonne. Centinaia di candelieri facevano oscillare la costellazione delle loro fiamme sotto le volte dipinte.

Jean Roussel era stato sorpreso innanzitutto dall’assenza di sculture in quel luogo consacrato. Fu Alexandr Vasilevič a spiegargli il mistero: al contrario dei cattolici, gli ortodossi avevano conservato tra i comandamenti divini la proibizione biblica contro gli idoli di pietra, di legno e di metallo: “Tu non farai immagini intagliate né raffigurerai in alcuna maniera ciò che è nell’alto dei cieli...”. Ma, ritenendo che il divieto si applicasse alle sole opere d’arte che per le dimensioni si prestassero a una confusione con il personaggio rappresentato, avevano escluso dai luoghi sacri le statue a tutto tondo ma avevano ammesso le immagini dipinte, che per la loro monodimensionalità non potevano trarre in inganni i fedeli.  Infatti, un tempo i pagani non bruciavano forse i loro incensi e sacrificavano le loro vittime davanti a delle statue? Per scoraggiare le devozioni sospette, il clero russo si era spinto fino a evitare di dedicare cappelle ai santi più importanti. Questi avevano quasi sempre la loro effigie sui pilastri delle navate o sulle pareti delle iconostasi, ma raramente in luoghi dove potessero essere oggetto di una devozione particolare. D’altra parte, ancora alla fine del secolo precedente gli stessi fedeli non volevano che i volti dei beati fossero dipinti in modo realistico e insistevano perché gli artisti continuassero a colorarli il meno naturalmente possibile con un tono bruno, la cui tradizione risaliva alle madonne leggendarie di San Luca.

Il culto delle icone nella chiesa orientale era stato sancito dal settimo Concilio ecumenico, svoltosi a Nicea nel 787. Secondo la definizione di questa alta assemblea esisteva un reale rapporto mistico fra l’immagine e il suo modello: la copia partecipava dell’essenza di colui che l’aveva ispirata. Il santo, al quale l’artista pensava, penetrava nella sua opera e la trasfigurava, in certo modo la vivificava. Se il modello era presente nell’icona, anche la forza divina del modello vi si incarnava. San Giovanni Damasceno diceva che l’icona era “una sostanza piena di energia divina, di forza e di grazia”. Celebrando il rito della consacrazione delle icone, la chiesa ortodossa chiedeva a Dio di far discendere sulla immagine tracciata da mano umana la luce dello Spirito Santo per conferirle il miracoloso potere di guarire i malati e di espellere i demoni. “Non è davanti a immagini impotenti che ci prosterniamo, noi credenti... Rappresentando nei tratti la somiglianza, noi la manteniamo, la adoriamo... vi attingiamo la grazia della salvezza” (dall’ufficio domenicale ortodosso).

Poiché l’icona è un mistero, l’arte di dipingerla è un’azione sacra. L’artista non poteva essere che un fedele ortodosso, e la sua grande purezza d’animo ne sosteneva il talento. Egli si preparava con il digiuno e la preghiera: “Santifica e illumina l’anima del tuo servo, guida la sua mano perché essa rappresenti degnamente e perfettamente la santa icona” (Libro del Pittore, del Monte Athos). In questa ideale disposizione di spirito, egli non cercava di lusingare l’occhio con la bellezza delle linee e dei colori, ma di realizzare l’incorporazione più compiuta possibile dell’essenza sovrannaturale in forma percepibile ai sensi. Egli rispettava norme grafiche antichissime, trasmesse di generazione in generazione. Diventava una figura anonima, una mano staccata dal corpo, lo strumento di una volontà superiore. I colori che usava erano diluiti in acqua benedetta ed egli vi mescolava particelle infinitesime di reliquie dei santi. Terminata l’opera, non gli veniva nemmeno in mente di firmarla perché non era lui che in realtà l’aveva creata ma la Chiesa intera.

Secondo Alexandr Vasilevič il culto delle icone non aveva niente a che vedere col neofeticismo, perché la venerazione dei fedeli non era rivolta alla icona in sé ma a colui che essa rappresentava. Al momento della consacrazione, i vescovi russi giuravano che avrebbero impedito al popolo di dedicare alle icone un’adorazione che era dovuta solo a Dio. Tuttavia, la loro vigilanza non poteva fermare lo slancio superstizioso del popolo verso le brune pitture bizantine. Per convincersene, Jean Roussel non doveva far altro che osservare le genuflessioni e i segni di croce appassionati che uomini e donne dedicavano a una Vergine scurita dal fumo dei ceri o a un beato dallo sguardo fisso e dalla barba bianca. Foreste di candele ardevano dinanzi a loro. La parte inferiore delle immagini era segnata, consumata dai baci della folla di fedeli. In genere, di questi santi e sante si scorgevano solo i piedi, le mani e il volto che spuntavano dalla pianeta d’argento o d’oro che li chiudeva come una corazza. I loro volti bruni dagli occhi neri e profondi e dalle labbra chiuse opponevano una indifferenza ieratica ai mormorii delle preghiere.

Le icone miracolose erano legione. Quella della Vergine Iberica, coperta di perle e di diamanti, era particolarmente venerata dai moscoviti. Non passava giorno senza che venisse portata, dietro offerta di una forte somma, al capezzale di un ammalato, in un nuovo appartamento o a una festa familiare. La carrozza che la trasportava era tirata da quattro trottatori guidati da un cocchiere seduto a cassetta ed era scortata da due giovani postiglioni a cavallo. Dietro, sotto una specie di spiovente che prolungava il tetto della vettura, stavano due valletti dalla livrea sbiadita. Cocchiere, postiglioni e valletti erano sempre a testa scoperta. All’interno si trovavano un prete rivestito dei paramenti sacri e un assistente. L’icona era posata di fronte a loro su un sedile. Lungo il percorso tutti i passanti si scoprivano e si facevano il segno della croce. Quando la carrozza si fermava davanti alla casa del “cliente”, si radunavano sempre molte persone che volevano vederla: alcuni fedeli la seguivano fino alla porta, altri baciavano devotamente il sedile su cui era stata poggiata. Durante la sua assenza dalla cappella (fino alle sei di sera, limite estremo) era sostituita da una copia.

In guerra i russi portavano sempre delle icone al seguito dell’esercito e attribuivano loro i propri successi. La Vergine di Smolensk era cara a tutto l’Occidente ortodosso dopo la vittoria della Poltava. Nostra Signora di Kazan doveva la sua fama alla presa di Kazan sotto Ivan il Terribile; grazie ad essa, Minin e Pojarskij avevano scacciato i polacchi da Mosca e Alessandro I aveva fermato l’invasione francese nel 1812. La vigilia della battaglia di Borodino, il maresciallo Kutusov in persona aveva implorato il soccorso della vergine miracolosa.

Riproduzioni delle icone più famose proteggevano tutte le case russe: ce n’era almeno una nella stanza da pranzo e una in ogni camera da letto. Nelle case di persone particolarmente pie c’era un vero e proprio oratorio. Le immagini sacre, moltiplicandosi all’infinito, erano entrate a far parte della vita quotidiana. Nessun atto importante si poteva svolgere senza il loro intervento. Scendevano dai luoghi dove erano collocate per vegliare sui malati o sui moribondi, accompagnare i defunti al cimitero, aiutare una nascita, fare da testimoni solenni agli affari importanti come alle piccole transazioni. Quando un giovane chiedeva la mano di una ragazza, i genitori benedicevano i fidanzati con l’icona di casa. Quando un membro della famiglia partiva per un lungo viaggio, tutti si radunavano davanti all’icona, sedevano, si raccoglievano in silenzio, poi si alzavano, si facevano il segno della croce e abbracciavano il viaggiatore augurandogli buon viaggio. La stessa icona, portata da un ragazzo, accompagnava la sposa, quando in carrozza, si recava in chiesa il giorno del matrimonio.

Altre pratiche di ispirazione religiosa avevano sorpreso Jean Roussel quando Alexandr Vasilevič gliene aveva parlato. I russi non si limitavano a fare il segno della croce su se stessi (portando la mano destra alla fronte, sul petto, sulla spalla destra e poi su quella sinistra, al contrario dei cattolici) ma, secondo le abitudini dei primi cristiani, lo tracciavano anche sulle persone a loro care, sugli oggetti, sugli alimenti, per allontanarne le forze del male. I genitori facevano la croce sui figli, la sera, nei loro letti. Le donne la facevano al marito quando usciva per andare al lavoro: “Che Dio sia con te!”.

Tutto ciò che era stato benedetto da un sacerdote, in Russia, assumeva un valore sacro e, si potrebbe dire, magico. Spesso si dava l’acqua benedetta da bere ai malati. Tatjana Sergeevna portava dalla chiesa dei piccoli pani benedetti, li divideva con il marito e i figli e li consumava con loro dopo essersi fatti il segno della croce. Anche Jean Roussel una volta aveva mangiato uno di quei pani benedetti: erano di forma rotonda, più grandi e più spessi delle ostie usate dai cattolici, fatti con pasta fermentata. Vedove del basso clero, le prosphornia, li impastavano. Per celebrare la messa, il prete prendeva molti di questi pani e con la lancia liturgica ne staccava uno dopo l’altro cinque pezzi: il primo era dedicato a Cristo, il secondo alla Vergine, il terzo ai santi apostoli, profeti e martiri, il quarto ai vivi, il quinto ai morti. Dopo la messa i pezzetti di pane inutilizzati venivano distribuiti ai fedeli. Mangiarne significava compiere un atto di fede e conseguire la purificazione interiore. Per la domenica delle Palme, invece dei ramoscelli d’olivo, venivano benedetti rami di salice dai germogli argentei e lanosi. A Pasqua i fedeli facevano benedire dal sacerdote della loro parrocchia le uova dipinte, i kulic e i pascha.

Come in Europa all’epoca degli Antichi Regimi, in Russia i registri delle nascite, dei matrimoni e delle morti erano tenuti dalla Chiesa. Tutti gli atti di stato civile erano redatti da sacerdoti e quindi non si esisteva per l’Amministrazione senza aver ricevuto il battesimo. Perciò l’annullamento del matrimonio doveva essere decretato, e solo in casi molto rari e ben definiti, da un tribunale ecclesiastico che dipendeva dal Santissimo Sinodo.

Contrariamente alla chiesa cattolica, la chiesa ortodossa non si era evoluta nei secoli. Un’arcaica austerità continuava a ispirare gli usi che essa imponeva ai suoi fedeli. Quando Alexandr Vasilevič gli aveva elencato i digiuni e le astinenze dei fedeli ortodossi, Jean Roussel era rimasto colpito dal loro numero. Invece di una sola quaresima, la chiesa russa ne aveva quattro: la prima, corrispondente all’Avvento, precedeva il Natale (dal 15 novembre al 24 dicembre); la seconda, la Grande Quaresima, precedeva la Pasqua di sette settimane; la terza precedeva la festa dell’Assunzione (dall’1 al 14 agosto). Oltre alle quaresime e alle vigilie delle festività, c’erano due giorni di astinenza la settimana: il mercoledì, giorno del tradimento di Giuda, e il venerdì, giorno della morte del Salvatore. In totale i periodi di magro assommavano a un terzo dell’anno. Durante le quattro quaresime erano vietati carne, latte, burro e uova.

Alexandr Vasilevič, benché credente, giudicava tale rigore eccessivo e non era il solo. A suo parere, la maggior parte delle persone più evolute si prendeva grandi libertà con le regole e osservava il digiuno solo durante la prima e l’ultima settimana della Grande Quaresima. Non era necessario, per questo, sollecitare una dispensa speciale del prete. Mentre i cattolici interpretavano l’astinenza come un obbligo nei confronti della Chiesa, per i russi essa era solo una mortificazione che preparava alla festa. Di conseguenza, per prendere una decisione in proposito, si affidavano solo alla loro coscienza.

 “Da voi” diceva Alexandr Vasilevic per un sì o per un no i devoti chiedono un privilegio, una dispensa, un consiglio al curato. Noi, nella maggior parte dei casi seguiamo la nostra ispirazione. Sa fai il male, non è la parola del pope che può cancellare la tua colpa. Confessalo, ma non crederti perdonato. Sei solo davanti alla tua anima. Guardi mia moglie per esempio: dovrebbe chiedere al pope il permesso di digiunare, quando Dio stesso, avendole dato una salute fragile, le ha vietato il digiuno?”

Queste parole avevano fatto riflettere Jean Roussel: evidentemente, i preti ortodossi non godevano presso i loro fedeli dello stesso genere di rispetto di cui godevano quelli cattolici. I russi non vedevano in loro delle guide spirituali, capaci di alleggerirli delle loro colpe e di illuminarli sul cammino da seguire, ma dei semplici custodi dei riti e direttori di preghiera, dei dispensatori di sacramenti. Questo era confermato anche dal fatto che nelle chiese non esistevano pulpiti da cui il prete potesse predicare al suo gregge. I sermoni erano rari e nella maggior parte dei casi riservati ai membri dell’alto clero. Il commento ai Vangeli, che nella chiesa cattolica era fatto dal prete, era sostituito dalla lettura dei Padri della Chiesa o di qualche trattato approvato dal Santissimo Sinodo, libri spesso intessuti di locuzioni in slavo antico e quindi incomprensibili alla gente. Perciò, anche quando prendeva la parola per rivolgersi alla folla, il sacerdote non entrava in comunicazione con essa, ma restava una voce che recitava un testo sacro. Vestito dei ricchi abiti sacerdotali, era troppo lontano dagli umili mortali per suscitare la loro fiducia, mentre nella vita quotidiana era troppo vicino a loro perché potessero pensare di venerarlo. Aveva moglie e figli come gli altri uomini, la sua barba lunga e trascurata, la sua povertà, le sue preoccupazioni domestiche facevano sorridere. Il problema sorgeva, molto probabilmente, dalla divisione del clero ortodosso in clero secolare o bianco e clero monastico o nero. Il clero monastico era votato al celibato e nel suo seno venivano reclutati gli alti dignitari della Chiesa, mentre il clero secolare forniva i sacerdoti delle parrocchie che erano tenuti all’obbligo del matrimonio.


Nel clero monastico esistevano tre gradi: i monaci, i preti-monaci e i vescovi. I monaci e i preti-monaci trascorrevano la vita in convento in regime molto austero: non potevano mai mangiare carne, per esempio, se non in caso di malattia. Cominciavano dalla condizione di conversi (polsušniki) e dopo un lungo periodo di attesa e di studio pronunciavano definitivamente i voti e diventavano monaci (monach). Naturalmente, c’erano diversi livelli nella gerarchia sacerdotale-monacale: diacono (hiérodiacono), prete-monaco (hiéromonaco) e infine archimandrita (grado intermedio fra il vescovo e il monaco). Per essere ordinati archimandriti si doveva possedere un titolo accademico di maestro o dottore in teologia, ma anche per essere semplice diacono bisognava aver seguito gli studi in seminario.

Ai più alti livelli della piramide ecclesiastica stavano i vescovi, gli arcivescovi e i metropoliti. Tutta la Russia era divisa in eparchie o diocesi amministrate da un arcivescovo (archepiscop) o da un vescovo (episcop). Le tre eparchie più importanti erano dirette da un metropolita: erano quella di Novgorod e San Pietroburgo, quella di Mosca e quella di Kiev, in ordine di importanza. In ogni eparchia funzionava un concistoro presieduto da un vescovo. Il clero secolare delle campagne e delle città era posto alle dipendenze di questo alto prelato del clero monastico.

Il clero secolare o bianco, parrocchiale, si suddivideva invece in protohierei (arcipreti), alcuni dei quali portavano la mitria episcopale durante le funzioni; hiérei, o preti, detti comunemente popi; protodiaconi, in genere al servizio di un vescovo, e diaconi. Tutti i membri di questo clero dovevano portare la barba e i capelli lunghi ed essere sposati. Se la moglie moriva, non potevano però risposarsi e in genere si ritiravano in un monastero: per questo, in genere si ritiravano in un monastero: per questo, ingenere si prendevano molto cura della loro compagna. Il clero parrocchiale era sottoposto gerarchicamente al vescovo della diocesi. Il vescovo trasmetteva le sue direttive ai sacerdoti attraverso il concistoro. Ogni parrocchia aveva la sua chiesa, affidata a un curato (pope), un diacono assistito da un lettore salterio (psalomščik) e un sacerdote (ponomar).

Mentre i monaci potevano aspirare, con il celibato, a una brillante carriera, i sacerdoti ordinari, sposati, accettando la loro carica abdicavano a ogni ambizione personale. La regola pretendeva che restassero legati per tutta la vita a una chiesa senza aspirare né ad avanzamenti né a trasferimenti in una regione più amena o più ricca. La somma che il Santo Sinodo passava loro era un salario da fame, 60 rubli l’anno, cioè 162 franchi-oro. Con esso dovevano anche provvedere al mantenimento della loro numerosa famiglia, occuparsi in qualche modo della scuola del villaggio, curare i contadini quando mancava un medico e correre a celebrare battesimi, funerali e matrimoni. Poiché non esistevano tariffe fisse per queste cerimonie religiose, ognuno pagava ciò che voleva, in genere il meno possibile.

Mantenuti in una condizione di subalternità dai loro capi ecclesiastici, difficilmente i sacerdoti potevano aspirare alla stima dei loro parrocchiani. I fedeli chiedevano loro semplicemente di avere un’aria maestosa, una bella barba e un voce forte e grave.

Invece i monaci erano profondamente venerati dal popolo. Erano istruiti, lontani, misteriosi, conducevano una vita ascetica e contemplativa. Li si credeva capaci di fare miracoli, si andava ai monasteri a chiedere loro consigli. I monasteri più grandi si chiamavano lavra (laura), i più piccoli skit o pustyn (romitaggio o deserto). Ma non esistevano ordini religiosi come nella chiesa cattolica, niente di paragonabile alle potenti congregazioni d’Europa, con i loro diversi abiti, le loro rigide regole, la loro dimensione internazionale. Il monaco russo non aveva altro desiderio, ritirandosi dal mondo, che quello di espiare i peccati del mondo con la preghiera.

Alexandr Vasilevič Zubov parlava con meraviglia del monastero di Optina (Optina Pustyn’) che aveva visitato circa quindici anni prima. Tale monastero era situato nel cuore della Russia nella provincia di Kaluga, sulle rive dl tranquillo fiume Jisdra. Sul fondo verde della foresta spiccavano le mura bianche della cinta del monastero, le cupole azzurre delle chiese e le loro eleganti croci d’oro. Non si sentivano altri rumori che il canto degli uccelli e il mormorio dell’acqua che scorreva. Varcare la soglia di quel romitaggio significava voltare le spalle alle vane agitazioni del mondo.

In piena notte, secondo la regola, i monaci si radunavano per cantare il mattutino. Le preghiere in comune erano numerose e recitate con puntualità. Al refettorio, il silenzio era turbato solo dalla voce del monaco o del novizio che leggeva la vita del santo che veniva venerato quel giorno. Grazie ai sussidi dei mercanti, degli industriali e dei contadini agiati, il convento manteneva una scuola, un ospedale e un ospizio per orfani. Vicino al monastero, nella foresta, si trovava uno skit, un piccolo agglomerato dove alcuni monaci, desiderosi di praticare l’ascesi, vivevano in una solitudine e una pace esaltante. Una palizzata con porte adorne di icone circondava quel rifugio di alta spiritualità. Celle bianche, aiuole fiorite, viali di cedri, stagni, chiesa, arnie, cimitero, tutto sembrava pacificato dalle orazioni quotidiane. Ciononostante, non erano né la bellezza del paesaggio, né il fervore degli uffici celebrati in quel luogo ad attirare tanti pellegrini verso il monastero ma la straordinaria fama del suo starec.

La parola starec in russo significa vegliardo ma, al contrario del termine corrente starik, evoca una idea di dignità morale, di serena esperienza. Lo starec era in genere un monaco anziano che aveva acquisito con la meditazione e la preghiera la capacità di comprendere e guidare coloro che si recavano da lui nel dolore. Poteva essere il superiore del convento o semplicemente assistere il superiore nella sua carica, ma era comunque la guida spirituale della confraternita. Lo starec non era necessariamente prete: se non lo era, i fedeli si rivolgevano a lui con la stessa spontaneità e umiltà che se fosse stato ministro di Dio, però si confessavano regolarmente da un altro.

La diffusione degli starec era così notevole in Russia che i più celebri di essi ricevevano dalla mattina alla sera, nelle loro celle o nel parlatorio, masse di peccatori alla ricerca della verità. Malati del corpo o dell’anima, illetterati ottusi o intellettuali tormentati , ricchi mercanti o pellegrini affamati, tutti volevano essere illuminati, elevarsi, a contatto con il vecchio saggio. Il suo parere veniva richiesto su quasi tutti i problemi della vita quotidiana: una posizione da accettare o da rifiutare, un progetto di matrimonio, una vocazione religiosa, una lite familiare, un amore tradito, un delitto nascosto... Talvolta, prima ancora che il nuovo venuto gli avesse confidato il suo problema, lo starec lo indovinava e gli rispondeva con una parola rasserenante, con uno sguardo ispirato, con un sorriso.

Un tempo, a Optina Pustyn’ padre Leonida riceveva i pellegrini seduto sul suo letto, vestito di una camicia bianca e con la berretta in testa. Mentre parlava con trasporto, andava intrecciando delle cinture. I visitatori erano inginocchiati o accoccolati a terra intorno a lui. Il suo successore, padre Macario, aveva accolto e consigliato Nicolaj Gogol’ e il pubblicista slavofilo Kireevskij, la cui conversione aveva suscitato allora tanto rumore. Dopo padre Macario era stato padre Ambrogio a continuare, a Optina Pustyn’, la luminosa tradizione degli starec. Il suo insegnamento aveva spinto il letterato e filosofo Constantin Leontiev ad allontanarsi dal mondo e a ricevere la tonsura. Altre eminenti personalità gli avevano chiesto una lezione di saggezza: ufficiali della guardia, sapienti, alti funzionari, il celebre critico Strachov, i pubblicisti e filosofi Chomjakov e Vladimir Solovëv, il granduca Costantino e i due più celebri romanzieri del loro tempo: Dostoevskij e Tolstoj.

 “Era già molto vecchio quando l’ho visto per l’ultima volta” disse Alexandr Vasilevič Zubov. “Immagini un uomo alto, magro, curvo, lo sguardo vivace, il voto segnato da rughe profonde, con una corta barba. Mi ha guardato con una dolcezza penetrante e ho sentito che nella mia testa tutto diventava pulito. Se ci fossero più starec come lui, anche il dolore, per noi, sarebbe fonte di gioia.”

“Ci sono molti monasteri in Russia?” s’informò Jean Roussel.

“Cinquecento circa, che ospitano undicimila monaci e diciottomila suore. Non sono poi tanti!”

“E a quale autorità è sottoposto il clero monastico?”

“Al di sopra di esso sono solo il Santo Sinodo e lo zar.”


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Michail Nesterov, Eremita (1889). Galleria Tretjakov, Mosca.
 

  



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Messaggio «LA CHIESA ORTODOSSA RUSSA» 
 
Mikhaìl Talalaj Михаил Талалай
«LA VITA DI CHIESA RUSSA E LA SUA COSTRUZIONE IN ITALIA»
«РУССКАЯ ЦЕРКОВНАЯ ЖИЗНЬ И ХРАМОСТРОИТЕЛЬСТВО В ИТАЛИИ»
Casa Editrice «Kolo» Mosca 2011 (Pagine 400)
Издательство «Коло» Москва 2011

Il libro del noto storico russo Mikhail Talalaj (Михаил Талалай) è il risultato del suo lavoro durato 15 anni negli archivi e nelle biblioteche dell’Italia e della Russia. È un’enciclopedia unica della vita di chiesa ortodossa, la vita religiosa ed ecclesiastica in Italia alla luce degli aspetti storici, politici, culturale-artistici, biografici … La presenza della Chiesa ortodossa in Italia esiste dalla fine del XVIII secolo presso l’ambasciata. Le chiese furono costruite dagli emigranti russi, dai villeggianti e dai pellegrini.
Nel libro è pubblicata una serie di materiali d’archivio e in primo luogo il dettagliato registro dell'arciprete Vladimir Levitskij della costruzione della Chiesa d'ambasciatore a Firenze. Questo libro è una certa enciclopedia di tutte le chiese russe ortodosse in Italia.



Ultima modifica di Zarevich il 21 Feb 2018 11:09, modificato 1 volta in totale 

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Descrizione: Mikhaìl Talalaj
«LA VITA DI CHIESA RUSSA E LA SUA COSTRUZIONE IN ITALIA»
Casa Editrice «Kolo» Mosca 2011 (Pagine 400) 
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Zarevich
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Messaggio «LA CHIESA ORTODOSSA RUSSA» 
 
Molto interessante Smile In effetti in Italia ci sono molte chiese ortodosse, anche russo-ortodosse e quella di Firenze è molto probabilmente la più bella. Il caso di Roma è singolare, perché, a parte una modesta sala di culto presso l'ambasciata, fino a pochissimi anni fa non esisteva nessuna chiesa russo-ortodossa in tutta la città; adesso è stata costruita quella di Santa Caterina d'Alessandria, che ancora è completa solo nella struttura, mentre devono ancora essere realizzate le decorazioni e le opere d'arte all'interno.
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Quest'immagine è tratta dalla pagina web: http://italian.ruvr.ru/2009/09/28/1830632.html

  



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Messaggio «LA CHIESA ORTODOSSA RUSSA» 
 
Veramente a Roma c'era, e ancora c'è, la Chiesa di "San Nicola di Mira il Taumaturgo", in via Palestro 71. La  principessa Cernyševa (morta nel 1919) fece lascito alla chiesa russa del proprio palazzo in Via Palestro già nel 1897, ma per complicazioni varie la parrocchia entrò in possesso dell'eredità solo nel 1931, e fu consacrata il 10 aprile 1932.
In questa chiesa mi sono sposato io con rito ortodosso esattamente 11 anni fa!  Smile
  



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Ah, la conosci bene allora! E sai se si può visitare?
  



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Credo proprio di sì, è aperta al pubblico. Ma non ti aspettare chissà che, però Wink
  



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Messaggio «LA CHIESA ORTODOSSA RUSSA» 
 
forse si tratta della stessa chiesa, che ho definito come "presso l'ambasciata", perché l'ambasciata russa sta in via Gaeta, proprio lì vicino, ed io ho sempre immaginato che quello spazio le appartenesse. Invece la proprietà è della Chiesa russa e lo è già dal '31; non l'ho ancora vista, ma mi avevano già spiegato, che quella chiesa è stata ricavata dai saloni di una residenza (quella della principessa di cui parli, evidentemente), e quindi lo spazio è un po' improprio (ho comunque curiosità di vederla). La chiesa di S. Caterina è invece un monumento vero e proprio e se per ora l'interno appare desolatamente nudo, quando saranno realizzati i mosaici e tutta quanta la decorazione, la musica sarà ben diversa. Smile
  



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Messaggio «LA CHIESA ORTODOSSA RUSSA» 
 
Anton Kartascev Антон Карташев
«STORIA DELLA CHIESA RUSSA»
«ИСТОРИЯ РУССКОЙ ЦЕРКВИ»
Serie «Biblioteca dell’Ortodossia Russa»
Серия: «Библиотека Русского Православия»
Casa Editrice «Exmo» Mosca 2010 (Pagine 544)
Издательство «Эксмо» Москва 2010

Anton Kartascèv (Антон КАРТАШЕВ 1875-1960), un illustre scienziato, storico ortodosso russo, teologo e biblista, occupa un posto particolare fra gli storici russi. Questo suo libro rappresenta un’enciclopedia che non ha prezzo della Storia della Chiesa Ortodossa Russa che è di grande valore ed interesse per gli specialisti della storia ed anche per un pubblico attento di lettori.

  

storia_della_chiesa_russa_.jpg
Descrizione: Anton Kartascev «STORIA DELLA CHIESA RUSSA»
Serie «Biblioteca dell’Ortodossia Russa»
Casa Editrice «Exmo» Mosca 2010 (Pagine 544) 
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Zarevich
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