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«LE MILLE E UNA NOTTE»
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Messaggio «LE MILLE E UNA NOTTE» 
 
«Alì Babа e i quaranta ladroni»

Nel tempo dei tempi, in una cittа' della Persia, vivevano due fratelli, che si chiamavano uno Qassim e l'altro Alì Babа. Quando il padre di costoro, che era un uomo di modeste risorse, morì, i due fratelli si divisero equamente i magri beni lasciati dal genitore.
Certo l'ereditа non migliorò di molto la condizione dei due fratelli, perchè i beni lasciati dal padre erano ben poca cosa. Ma Qassim ebbe la fortuna di conoscere un giorno una donna che gli combinò un matrimonio con una ragazza piacevole di aspetto e per giunta provvista di beni di fortuna e padrona di una bottega fornita di ogni mercanzia, così che Qassim diventò dall'oggi al domani un uomo agiato, anzi, uno dei più ricchi mercanti della cittа e potè fare a meno di preoccuparsi dell'avvenire.
Alì Babа invece aveva sposato una donna povera come lui, viveva in una'povera casa e possedeva quale unica ricchezza tre somari che gli servivano per trasportare in cittа la legna che andava a tagliare nei boschi e con la vendita della quale tirava avanti  alla meno peggio.

Ora avvenne che un giorno, mentre Alì Babа si trovava nel bosco a tagliare legna come al solito, senti in lontananza un rumore sordo che si avvicinava sempre più : si trattava del trepestio di parecchi cavalli che correvano al galoppo.
Poichè quel luogo era lontano da ogni via di passaggio e molto solitario, Alì Babа pensò dovesse trattarsi di qualche banda di ladri e ritenne prudente mettersi in salvo fino a che non avesse potuto vedere chi erano i cavalieri che arrivavano così di gran carriera.
Perciò si arrampicò su un grande albero che sorgeva in cima a una rupe isolata e si nascose fra i rami in modo da poter vedere senza essere veduto. E fu una saggia decisione la sua, perchè di lì a poco vide arrivare al gran galoppo una masnada di cavalieri, grandi e grossi, armati fino ai denti e dalle facce feroci.
Alì Babа capì allora di non essersi sbagliato e fu certo che quegli uomini dal fiero aspetto erano dei banditi di strada.
A un cenno del loro capo, smontarono da cavallo, legarono le bestie agli alberi, quindi tolsero dalle selle delle bisacce e se le caricarono sulle spalle. Curvi sotto il peso delle bisacce, s'incamminarono in fila indiana sfilando sotto l'albero dove si trovava Alì Babа il quale potè così contarli comodamente e vide che erano in tutto quaranta, nè uno di più nè uno di meno.
Colui che marciava in testa alla fila e che doveva essere il capo dei banditi, arrivato davanti a una grande roccia seminascosta da un folto di cespugli, si fermò, depositò la propria bisaccia a terra e, con voce squillante, gridò:
" Sesamo, apriti! " Non appena ebbe detto queste parole, ecco che la roccia girò su se stessa, come una porta sui cardini, rivelando una vasta apertura.I banditi uno dopo l'altro e da ultimo il capo, dopo essersi ricaricata sulle spalle la bisaccia, entrт anche lui; dopo di che la roccia girò di nuovo su se stessa bloccando l'apertura e per quanto Alì Babа, che pure non era lontano, aguzzasse la vista, non gli fu possibile scorgere nè un segno nè una fenditura che rivelasse l'ingresso di una grotta.
Alì Babа, che aveva assistito stupefatto allo spettacolo che si era svolto sotto i suoi occhi, non sapeva che partito prendere. Dapprima pensò di scendere dall'albero, impadronirsi di un paio di cavalli e fuggire con quelli in cittа. Ma riflettendoci bene temette che i banditi uscissero dalla grotta mentre lui cercava di squagliarsela, e in tal caso nessuno avrebbe potuto salvarlo da una fine miserevole. Decise perciò che la cosa migliore era di rimanere dove si trovava, anche perchè era incuriosito di vedere che cosa sarebbe successo.
Dopo un bel po' che stava lм sull'albero e si sentiva giа le gambe molli per la scomoda posizione, Alì Babа vide che la roccia tornava a girare su se stessa, ed ecco che dall'antro uscirono di nuovo in fila indiana i banditi recando in mano le bisacce, ma questa volta vuote. Da ultimo uscì il capo il quale assicuratosi che nessuno fosse rimasto nella grotta, si voltò verso la roccia e con la solita voce squillante gridò:
" Sesamo, chiuditi! " Dopo di che i banditi tornarono tutti ai cavalli, legarono le bisacce alle selle, montarono in groppa e spronarono via.
Alì Babа sarebbe stato tentato di scendere subito dall'albero, ma la prudenza di cui Allа lo aveva fornito gli consigliò di rimanere dove si trovava, in quanto pensò che forse i ladroni potevano aver dimenticato qualche cosa e sarebbero tornati indietro a prenderla e così lo avrebbero sorpreso.
Cercò di seguire con l'occhio per quanto potè i cavalieri e quando li vide scomparire nel folto degli alberi si mise a spiare la nuvola di polvere, che sollevavano le loro cavalcature.
 Quando alla fine la nuvola di polvere, che si rimpiccioliva sempre pмщ, scomparve del tutto ai suoi occhi, allora Alì Babа, sentendosi abbastanza sicuro, scese dall'albero e si avvicinт incuriosito alla roccia cominciando a guardare bene da tutte le parti. Ma per quanto guardasse e smuovesse cespugli, non gli fu possibile vedere alcuna anfrattuositа, alcuna fessura, non gli fu possibile insomma scoprire alcun indizio che quella roccia si fosse mai mossa dal suo posto fin da quando, nella notte dei tempi, il Signore l'aveva collocata in quel luogo.
Siccome, però, egli ricordava la formula pronunciata dal capo dei ladroni, fu spinto dalla curiositа di constatare se quelle parole avevano lo stesso potere magico anche in bocca a lui.
Si piantò quindi davanti alla roccia e ad alta voce gridò:
" Sesamo, apriti! " E sebbene la sua voce tremasse un poco per l'emozione, la roccia cominciò a girare su se stessa rivelando una vasta apertura. Alì Babа fu preso da un indicibile spavento, senti che le gambe gli tremavano e fu sul punto di fuggire; se non che, gettando un'occhiata verso l'interno dell'apertura, invece della grotta buia e spaventosa che si era immaginata, vide una galleria di pietra ben levigata, spaziosa e bene illuminata da un fiotto di luce che pioveva dall'alto.
Quella vista lo rincuorò , e se la paura lo tirava indietro la curiositа lo spingeva avanti, e cosм un passo dietro l'altro cominciò ad inoltrarsi nella galleria.
Fatti pochi passi, senti che la roccia girava di nuovo sui cardini e richiudeva l'apertura. Lì per lì fu preso da un indicibile spavento, ma poi pensò che la formula magica, così come aveva funzionato per farlo entrare, avrebbe funzionato per farlo uscire. Tranquillizzato da questo pensiero, cominciò ad ispezionare il luogo in cui si trovava e, passando di meraviglia in meraviglia, vide che la galleria era piena zeppa di balle di stoffa preziosa, di tappeti finissimi e, cosa ancor più sorprendente, di sacchi e di cofani traboccanti di monete d'oro, di gioielli e di pietre preziose. E il povero Alì Babа, che in vita sua non aveva mai veduto nemmeno una parte infinitesima di tante ricchezze, sbarrava gli occhi e a malapena osava toccare con la punta delle dita quell'oro, quei diamanti, quelle gemme, e andava dicendosi che quella grotta doveva essere servita di rifugio non solo a quei quaranta ladroni, ma anche agli antenati di quelli e agli antenati degli antenati, e ad intere generazioni di ladroni fin dall'origine dei secoli.
Passati i primi istanti di stupore e di sbigottimento, Alì Babа si disse:
" Nulla accade che il Signore non voglia! Se tu, o Alм Babа, povero legnaiolo, sei riuscito a entrare in questo luogo e a mettere le mani su tante ricchezze, è evidente che questa è la volontа di Colui che dа e prende. Non v'è dubbio su quale sia la volontа del Signore: Egli certamente desidera che quest'oro, frutto di tante ruberie e rapine, sia usato a fin di bene, perchè tu ne faccia elemosine e viva con la tua famiglia al riparo dal bisogno e dalle ristrettezze. "
E dopo essersi messo in pace la coscienza con questo ragionamento, il povero Alì Babа prese un sacco pieno di monete d'oro e lo trascinò fino all'imboccatura della galleria. Poi fece lo stesso con un secondo sacco e con un terzo, e tanti ne preparò quanti pensava che i suoi somari potessero trasportarne. Quando ebbe ultimato il suo lavoro, si mise davanti all'imboccatura della caverna e ad alta voce disse:
" Sesamo, apriti! " E subito la roccia girò su se stessa e Alì Babа trascinò all'aperto i sacchi colmi d'oro che aveva preparato. Poi, voltatosi verso l'apertura della grotta, disse ad alta voce:
" Sesamo, chiuditi! " e la roccia tornò a girare,su se stessa e si chiuse.
Alì Babа attaccò i sacchi al basto dei somari e per evitare la curiositа della gente ebbe cura di nasconderli sotto le fascine di legna. Poi riprese il cammino per la cittа e arrivato a casa sua condusse gli asini in una piccola corte interna, dove nessuno poteva vederlo, e cominciò a scaricare i sacchi.
Ed ecco che arrivò la moglie di Alì Babа, che vedendo il marito indaffarato a scaricare sacchi così pesanti , cominciò a chiedergli che cosa fosse quella roba, e dove l'avesse trovata e chi gliel'avesse data poi si mise ad aiutare il marito a trasportare i sacchi in casa, ma poichè palpandoli li sentiva come fossero pieni di monete, la sua curiositа non fece che aumentare. Così, quando ebbero terminato di trasportare tutti i sacchi in casa, volle subito aprirne uno e, vistolo colmo di pezzi d'oro, si rallerò ma si preoccupò pure che Ali Babа avesse rubato tutta quella fortuna.
" Marito mio, " disse la donna, " non ho certo intenzione di contare a una a una tutte queste monete. Però, prima di sotterrarle, voglio sapere a quanto ammonta la nostra fortuna. Perciò andrò a farmi prestare una misura di legno da qualche vicina mentre tu scaverai la fossa per nasconderla. Così sapremo quanto potremo spendere per il necessario e per il superfluo, e potremo regolare convenientemente la nostra vita. "
Alì Babа pensò che il ragionamento della moglie non fosse sbagliato e le disse:
" E va bene! Va' pure! Ma fa' presto, e soprattutto bada di non rivelare ad anima viva il nostro segreto. "
La moglie di Alì Babа si mise il velo sul volto e uscì per andare in cerca della misura di legno che le occorreva, e, strada facendo, pensò che la cosa migliore fosse quella di andarla a chiedere alla cognata, la moglie di Qassim, il fratello ricco di suo marito.
Così fece; e recatasi a casa di Qassim chiese alla cognata se poteva prestarle una misura di legno, e la cognata le rispose: " Volentieri, cognata mia, perchè, se vieni a chiedermi una misura, vuol dire che ti serve per misurare qualcosa, e se hai qualcosa da misurare vuol dire che è entata la prosperitа in casa tua. "
E poichè la moglie di Ali Babа non rispondeva nè si nè no, l'altra, rodendosi di curiositа, andò a prendere la misura di legno, ne spalmò il fondo all'esterno con un po' di sego.
Fatto ciò tornò dalla cognata e le consegnò la misura. La donna la ringraziò e se ne tornò a casa; qui giunta, si sedette per terra accanto ai sacchi e affondando la misura nelle monete d'oro cominciт a contare tutto quel denaro, facendo, per ogni misura che passava, un segno col carbone sul muro.
Quando ebbe finito di passare l'oro, chiamò Alì Babа e gli mostrò i segni che aveva fatto sul muro e che quasi riempivano una intera parete. Poi, quando lei e il marito ebbero deposto i sacchi nella buca che Ali Babа aveva scavato e li ebbero ricoperti ben bene con la terra, la donna prese la misura si velò, e andò a restituirla alla cognata, ringraziandola per il servigio che le aveva reso. Non appena la moglie di Alì Babа fu uscita, la cognata con suo grande stupore, vide che attaccata sul fondo unto di grasso c'era una moneta d'oro. Prese in mano la moneta e constatт che era di oro buono e subito si sentм il cuore attanagliato dall'invidia ed esclamò:
" Ma come? Quel pezzente di Alì Babа ha tanto denaro da doverlo contare a misure? E come avrа fatto a procurarselo? "
Era sera, quando il marito, Qassim tornò a casa, la moglie andò subito incontro e gli disse:
" 0 Qassim, chi pensi che sia più ricco fra te e tuo fratello? "
Qassim la guardò sbalordito e le disse:
" Che discorsi sono questi? Sai benissimo che mio fratello è un poveraccio buono a nulla. Che significa questa domanda? "
" Allora sappi, o Qassim, " gli disse la moglie, " che ti sbagli di grosso, perchи tuo fratello Alì Babа è infinitamente più ricco di te, e in effetti è tanto ricco che per contare il suo denaro ha bisogno di una misura da grano. " E allo sbalordito Qassim raccontт tutto quello che le era capitato con la moglie di Alì Babа e concluse il suo discorso mostrandogli la moneta d'oro che era rimasta attaccata sul fondo della misura di legno.
Quando Qassim ebbe udito il racconto della moglie ed ebbe visto la moneta d'oro, non seppe darsi pace, e per tutta la notte non fece che rigirarsi nel letto, pensando a come potesse essere capitata tanta ricchezza fra le mani del fratello.
La mattina seguente, dopo aver passato una intera nottata a rodersi il fegato, Qassim uscì di buon'ora, si recò difilato dal fratello e senza nemmeno salutarlo e informarsi della sua salute gli disse:
" Che cosa sono tutti questi segreti? Ti sembra bello ingannare la gente in questo modo? Ma come? Te ne vai in giro come un pezzente a piangere miseria e poi misuri le monete d'oro a staia? E nemmeno a me, che sono tuo fratello, dici nulla dei tuoi affari nè mi metti al corrente di quello che ti capita. "
Alì Babа rimase interdetto, perchè temeva l'invidia e la gelosia del fratello e della cognata. Così rispose:
" Fratello mio, perchè ti lamenti se è questa la prima volta, in tanti anni, che metti piede nella mia casa? "
" Adesso non si tratta di questo, Alì Babа, " rispose impaziente Qassim, " ma si tratta dei fatto che tu inganni la gente dabbene fingendoti povero quando non lo sei, dato che non ho mai visto un povero contare il denaro con una misura da grano. "
Alм Babа , capì che il fratello era al corrente di tutto e che sarebbe stato inutile cercare di fingere. Perciò, facendo buon viso a cattivo gioco, gli raccontò tutto quanto gli era capitato nel bosco e concluse dicendo.
" Fratello mio, ti prego di volere accettare metа dell'oro che ho portato fuori da quella grotta. "
Qassim, nel quale il racconto del fratello aveva risvegliato la cupidigia la tracotanza e la malizia, rispose:
" Piuttosto, hai dimenticato di dirmi quali sono le parole magiche che aprono la roccia. Prima di mettere le mani su quest'oro, voglio essere sicuro che quello che mi hai raccontato sia vero, perchè io sono un mercante rispettabile e non mi piacerebbe di trovarmi coinvolto in qualche pasticcio. Avanti dunque: dimmi quali sono queste parole e bada bene di non imbrogliarmi, perchè altrimenti andrò dal capo della polizia e ti denuncerò come complice dei ladroni. E non so se questo ti converrebbe. "
Alì Babа disse al fratello quali erano le parole magiche che servivano per fare aprire la roccia, e quando Qassim le ebbe udite se ne andò senza nemmeno ringraziare Alì Babа.
La mattina dopo, di buon'ora, Qassim fece mettere il basto a dieci muli e su ogni basto fece attaccare due robuste casse. Poi si avviт verso il bosco, nel luogo indicato dal fratello. Trovò subito l'albero, al quale legò i muli, e, regolandosi su quello, non ebbe difficoltа a individuare la roccia. Postosi dunque davanti alla roccia, pronunciò ad alta voce le parole:" Sesamo, apriti! " E subito la roccia cominciò a girare su se stessa rivelando l'apertura della grotta.
Qassim si precipitò dentro, ma fatti alcuni passi rimase impietrito dallo stupore perchè gli era bastata una sola occhiata per rendersi conto delle immense ricchezze che si trovavano nascoste in quel luogo; infatti, l'oro che il fratello aveva portato fuori non era che una minima parte di ciò che conteneva quella grotta.
Riavutosi dal primo stupore, Qassim cominciò, con il fiato mozzo dall'entusiasmo, a fare il giro della grotta, palpando e toccando le cose preziose che vi erano contenute e gettando esclamazioni di meraviglia. Con la bava alla bocca e gli occhi accesi di cupidigia, per un pezzo non fece che andare da un sacco all'altro e da un cofano all'altro valutando in cuor suo quelle ricchezze e accarezzandole con le sue mani da mercante come se giа fossero roba sua.
Pensò che per portar via quel tesoro ci sarebbe voluta una carovana di cammelli . Allora gli venne fatto di pensare ai dieci muli che aveva lasciato fuori accanto all'albero e decise di andarli a prendere, per caricare intanto quelli con quanta più roba gli fosse stato possibile. Così, fece per uscire dalla grotta, ma trovт che l'imboccatura era chiusa perchè, non appena era entrato, la roccia, come al solito, aveva di nuovo girato su se stessa e Qassim non se ne era accorto, tutto preso dall'entusiasmo per quel che vedeva.
Volle allora pronunciare le parole magiche per far riaprire la roccia, ma la vista di tutti quei tesori gli aveva stravolto il cervello e aveva dimenticato completamente quali fossero quelle parole.
Così si piantò davanti alla roccia e gridò:
" Orzo, apriti! " e poichè la roccia non si muoveva, ripetè ancora due o tre volte ad alta voce
" Orzo, apriti! " Ma la roccia continuò a rimanere ferma. Allora Qassim cominciò a pensare che la parola, magica dovesse essere un'altra: forse segala..... Perciò, con quanto fiato aveva in corpo, gridò: " Segala, apriti! " Ma naturalmente non accadde nulla. Dopo aver ripetuto più volte queste parole, Qassim cominciò a spazientirsi, e poi ad inquietarsi, e senza prender fiato si mise a ripetere la formula usando i nomi di tutte le semenze e di tutti i cereali che gli venivano in mente. Tutti li nominт tranne quello giusto.
Quando Qassim ebbe provato inutilmente tutti i nomi che gli venivano alla memoria, fu preso dal terrore di non poter piщ uscire dalla grotta. Allora non gli importò più niente di tutte quelle ricchezze e desiderò una sola cosa: uscire di nuovo alla luce del sole.
Come un forsennato, si mise a correre cercando un'apertura o un appiglio che gli permettesse di arrampicarsi fino alla volta della galleria da dove pioveva il fiotto di luce. Ma le pareti erano tutte di marmo liscio e levigato, unite e compatte, e non solo non vi erano appigli, ma non vi era nemmeno l'ombra di un'apertura. Alla fine si gettò a terra stremato di forze e rimase lм a piangere e ad ansimare per un pezzo, quand'ecco d'un tratto sentì fuori della grotta un rumore di cavalli al galoppo.
In effetti proprio quel giorno i quaranta ladroni avevano deciso di tornare nella grotta per nascondervi dell'altro bottino. Ma quando furono arrivati nei pressi della roccia videro i muli con le casse, legati all'albero, e allora, sguainate le spade, scesero subito da cavallo e cominciarono a frugare tutt'intorno e fra i cespugli per scovare il padrone di quei muli e ucciderlo. Ma per quanto cercassero dappertutto, non riuscirono a trovare anima viva. Allora il capo dei banditi, dopo essersi consultato con i suoi, si piazzò davanti alla roccia e gridò:
" Sesamo, apriti! " e la roccia girò su se stessa aprendosi.
Qassim, che dall'interno della grotta aveva udito le imprecazioni e le grida di rabbia dei banditi, si era nascosto in un angolo, appiattito fra due sacchi di monete d'oro. Quando però vide che la roccia inaspettatamente si apriva non ebbe altro pensiero che quello di correre a mettersi in salvo. Si precipitò dunque a testa bassa, verso l'apertura, ma andò a cozzare proprio contro il capo dei banditi, così entrambi caddero distesi per terra, e prima che Qassim potesse rialzarsi e fuggire gli altri briganti gli furono addosso e lo fecero a pezzi con le loro spade.
Quanto ai ladroni, dopo che ebbero ucciso Qassim, entrarono nella grotta e videro ammucchiati da una parte i sacchi e i cofani che Qassim aveva preparato per caricarli sui muli. Allora si sedettero in circolo e tennero consiglio chiedendosi come mai quell'uomo fosse riuscito a entrare nella loro grotta. Alla fine, poichè non trovarono una spiegazione soddisfacente a quel fatto strano, e poichè d'altra parte erano convinti d'essere i soli a possedere la formula magica che faceva aprire la roccia, e visto che l'intruso era morto e non avrebbe più potuto parlare con nessuno, rivelando l'esistenza del loro nascondiglio, decisero di vuotare le bisacce e di tornarsene al loro mestiere di razziatori.
Questo per quanto riguarda Qassim e i quaranta ladroni.

Ma torniamo ai quaranta ladroni, i quali, tornati alla grotta, rimasero di sasso constatando che il cadavere di Qassim era scomparso. Ma il loro sbigottimento non doveva conoscere limiti quando, insospettiti dalla cosa, si diedero a controllare il loro tesoro e dovettero concludere, ahiloro! che qualcuno aveva portato via una quantità notevole di monete d'oro. Allora si sedettero per terra in circolo e il capo così parlò:
" Miei prodi! Il nostro segreto, non so come, è stato scoperto, e se noi non escogitiamo qualche espediente per porre rimedio a questa faccenda ci vedremo sparire sotto il naso il tesoro accumulato in tanti anni di fatiche da noi e dai nostri antenati. Ormai non v'è più dubbio che il ladro da noi sorpreso nella grotta aveva un complice, ed è perciò indispensabile che noi scopriamo questo complice e l'uccidiamo, perchè il nostro segreto torni ad essere tale e i frutti delle nostre fatiche siano di nuovo al riparo dalla cupidigia dei mariuoli. Io propongo perciò che uno di noi si travesta da derviscio straniero, si rechi in città e, girando di strada in strada e di bottega in bottega veda di scoprire il nome di colui che cerchiamo. Ma è necessario che l'indagine sia condotta con astuzia e prudenza, perchè il più piccolo sbaglio potrebbe compromettere la riuscita dell'impresa. Perciò io propongo che colui il quale si assumerà l'incarico debba accettare di essere punito con la morte se commetterà qualche leggerezza o qualche errore. "
Allora uno dei ladroni si alzò e disse:
" Mi offro io di condurre in porto l'impresa e accetto la condizione che avete posto. "
Il capo e gli altri suoi compagni si felicitarono con lui, gli augurarono buona fortuna e quello, dopo essersi travestito da derviscio, se ne andò.
Non appena il loro compagno li ebbe raggiunti nella foresta e li ebbe informati di tutto quello che aveva fatto, essi si alzarono e s'incamminarono verso la città, dove entrarono a due a due per non destare sospetti nella gente.
Arrivati però nella strada indicata dal loro compagno, rimasero di sasso vedendo che tutte le porte recavano il medesimo segno fatto col gesso. Allora a un cenno del capo tornarono nella foresta e riunitisi a consiglio decisero che colui che aveva sbagliato doveva essere punito con la morte, come era stato convenuto. E senza porre tempo in mezzo presero il colpevole e gli mozzarono il capo.
D'altra parte, poichè diventava sempre più urgente sbarazzarsi di un nemico così astuto, un altro ladrone si offrì di andare in città a compiere la missione che il primo aveva fallito. Costui tornò in città, si fece indicare la strada e la casa del cadavere , fece sulla porta un segno rosso in un luogo poco visibile. Dopo di che se ne tornò, sicuro del fatto suo, verso la foresta.

Quando i ladroni tornarono a due a due in città e arrivarono nella strada dove abitava Alì Babà, rimasero ancora più stupefatti della prima volta constatando che tutte le porte di quella strada avevano lo stesso segno rosso nello stesso posto.
E questo era avvenuto perchè l'astuta Margiana, la fedele schiava di Alì Babà, messa in sospetto da quel primo segno fatto col gesso, aveva tenuto gli occhi aperti e non aveva tardato a scoprire il segno rosso fatto dal secondo ladrone. Cosi aveva ripetuto il segno su tutte le porte della strada confondendo le idee ai nemici del suo padrone.
Quando i ladroni furono ritornati nella foresta, anche il secondo esploratore subì la stessa sorte del primo, perchè così era scritto, anche se egli non lo sapeva. E il risultato di tutto questo affare fu che la banda si trovò menomata di due uomini fra i più coraggiosi.
A questo punto il capo dei ladroni, dopo aver riflettuto sulla situazione,si disse:
" Ormai mi fiderò solo di me stesso! " detto ciò si alzò e si recò in città facendosi indicare la casa del cadavere . Ma egli non fece come gli altri, non perse tempo a segnare la porta della casa di bianco o di rosso, ma rimase lì un bel pezzo ad osservarla per fissarsi nella mente qualche particolare che lo aiutasse a distinguerla dalle altre perchè, come già si è detto, le case di quella strada, viste dal di fuori, erano tutte uguali.
Quando fu ben sicuro che, tornando, non avrebbe potuto sbagliare, riprese la via della foresta e appena arrivato radunò intorno a sè i trentasette ladroni che rimanevano e disse loro:
" Miei prodi, finalmente la casa del nostro nemico è scoperta! A noi non rimane altro che infliggergli la punizione che si merita. Ed ora ascoltatemi bene: procuratevi al più presto trentotto giare, molto grandi e capaci e con l'imboccatura larga tanto che possa passarvi un uomo. Trentasette di queste giare le porterete qui vuote. La trentottesima dovrà essere piena di olio di oliva. E mi raccomando, badate bene che siano robuste e senza crepe. E adesso andate e tornate al più presto. "
Quando i ladroni tornarono con le giare attaccate alle selle dei cavalli, il capo disse loro di togliersi gli abiti, conservando solo il turbante, le babbucce e le armi, poi ordinò a ciascun uomo di infilarsi in una giara. Quando vide che tutti erano a posto, chiuse l'imboccatura delle giare con fibre di palma affinchè i curiosi non potessero guardarvi dentro e colui che vi era nascosto potesse respirare liberamente. Prese quindi un po' d'olio e unse l'esterno delle giare, così che nessuno potesse dubitare che quelle giare contenevano una merce diversa dall'olio. Infine, anch'egli depose i suoi abiti, si travestì da mercante d'olio e, spingendo davanti a sè la fila dei cavalli, sì avviò verso la città.
Arrivò nella strada dove abitava Ali Babà che già annottava ed ebbe la fortuna di trovare sulla porta di casa lo stesso Alì Babà che prendeva il fresco prima della preghiera della sera.
Allora il capo dei ladroni fece fermare i cavalli, si avvicinò ad Alì Babà e dopo averlo salutato gli disse:
"Signore, come vedi io sono un mercante d'olio e sono venuto da molto lontano a vendere la mia merce in questa città. Purtroppo il viaggio è stato più lungo del previsto e sono entrato in città così tardi che non mi riesce più di trovare un luogo dove alloggiare. Ora, ti pregherei di volermi ospitare per questa notte, perchè altrimenti non saprei dove andare. "
Ali Babà, che era un brav'uomo sempre disposto ad aiutare il prossimo, subito si alzò in piedi e cosi rispose al capo dei ladro:
" 0 mercante d'olio, che la mia dimora possa essere per te confortevole e accogliente. Entra. Tu sei il benvenuto! " E detto questo prese per mano l'ospite e fece entrare i cavalli nel cortile; poi chiamò Margiana, alla quale ordinò di preparare la cena anche per l'ospite, e a un suo schiavo, di nome Abdallàh, disse di aiutare il forestiero a scaricate le giare e a dar da mangiare alle bestie. Quando tutto fu in ordine, Alì Babà prese per mano l'ospite e lo fece entrare in casa, lo fece sedere accanto a sè e poi ordinò che venisse servita la cena.
Così mangiarono e bevvero in abbondanza .
Finita la cena Alì Babà, per non mettere in imbarazzo l'ospite, si alzò e, dopo avergli augurato la buona notte, si congedò dicendogli:
" Signore, la mia casa è la tua casa e tutto quello che essa contiene è tuo. " Al che il mercante rispose:
" La tua,generosità, o mio ospite, è degna del migliore dei musulmani. Tuttavia, dimmi dove potrei andare al gabinetto! "
Alì Babà gli indicò allora il gabinetto, che si trovava nel cortile proprio dove erano state deposte le giare, quindi gli rinnovò la buona notte e si ritirò.
Rimasto solo, il capo dei ladroni, con la scusa di andare a fare i suoi bisogni, scese nel cortile e, avvicinatosi'all'imboccatura della prima giara, disse sottovoce:
" 0 tu che sei nascosto lì dentro, quando sentirai un sasso colpire la tua giara, esci subito con le armi in pugno e corri da me. " E la stessa cosa ripetè all'imboccatura di tutte e trentasette le giare. Dopo di che, tornò in camera, spense la lucerna e si stese sul letto, contando di svegliarsi quando la notte fosse ormai fonda e tutto in casa fosse tranquillo.

Mentre ciò accadeva, Margiana era intenta a riordinare la cucina, ed ecco che ad un tratto la lampada che aveva con sè si spense per mancanza d'olio. Allora Margiana chiamò lo schiavo Abdallàh e gli disse:
" Guarda che guaio mi è capitato: si è spenta la lampada e in casa non c'è più nemmeno una goccia d'olio, nè saprei a quest'ora dove procurarmene un po'. "
Sentendo questo, Abdallàh si mise a ridere e le disse prendendola in giro: " Sono tutte qui le tue risorse, o Margiana? Perchè dici che in casa non c'è una goccia d'olio, quando in cortile sono allineate in bell'ordine trentotto giare colme d'olio? "
rispose Margiana: " Hai proprio ragione! Come mai non ci ho pensato prima? " Prese un recipiente e scese in cortile. Si avvicinò a una giara, ne tolse il coperchio e vi ficcò dentro il recipiente, ma sentì che questo non si tuffava nell'olio, bensì urtava contro qualcosa di duro, mentre dall'interno della giara usciva una voce:
" Il capo m'aveva detto che avrebbe tirato una pietra, ma questo è un vero e proprio masso! Avanti, usciamo di qui, è arrivato il momento! "
E Margiana, con gli occhi sbarrati dal terrore, vide sbucare dall'imboccatura della giara la testa di un uomo. Chiunque altro si sarebbe messo a gridare e a chiamare aiuto, ma non Margiana. la quale, riacquistata subito la presenza di spirito, si avvicinò a quella testa che cercava di uscire dalla giara e le disse:
" Non muoverti ancora, o mio prode. Il capo sta dormendo. Il momento non è giunto. " Dopo di che richiuse l'imboccatura della giara e passò in rassegna tutte le altre giare constatando che in ciascuna di esse si nascondeva un uomo, tranne che nell'ultima, la quale era veramente piena di olio.
Allora Margiana prese il calderone che le serviva per fare il bucato e lo mise sul fuoco; poi, servendosi del recipiente che aveva portato con sè travasò tutto l'olio della trentottesima giara nel calderone ed aspettò fino 'a che l'olio non fu bollente. Quando vide che era arrivato al punto giusto di calore, prese un grosso secchio, lo riempì d'olio e, avvicinatasi alla prima giara, tolse il coperchio di fibra di palma e con un colpo solo vi rovesciò dentro l'olio bollente, si che colui il quale vi era nascosto dentro non ebbe nemmeno il tempo di gridare, ma si ritrovò morto senza accorgersene.
Una dopo l'altra, Margiana ripetè la stessa operazione con tutte le altre giare, liberando così il suo padrone da quei trentasette ladroni. Quando ebbe terminato, rimise in ordine ogni cosa, chiuse di nuovo le giare con il coperchio di fibre di palma e si nascose in un angolo per vedere che cosa sarebbe accaduto.
Ed ecco che verso la metà della notte il falso mercante d'olio si svegliò, si affaciò alla finestra della stanza che dava sul cortile e, sentendo che in casa tutto era quieto e silenzioso, prese una manciata di sassolini che si era portata appresso e cominciò a tirarli uno a uno contro le giare che erano allineate dabbasso; e siccome era un ottimo tiratore non sbagliò nemmeno un colpo. Ma nulla si mosse: nè una testa, nè una punta di pugnale apparve all'imboccatura di una giara.
Allora, imprecando contro quei buoni a niente che dormivano, incuranti del suo segnale, scese dabbasso e fece per precipitarsi verso le giare, ma si fermò di colpo sentendo un orribile puzzo di carne bruciata. Tappandosi il naso, si avvicinò a una giara, la scoperchiò e v'introdusse una mano e senti che le pareti scottavano come quelle di un forno. Allora, accostata la lampada all'imboccatura della giara, guardò dentro e vide che c'era uno dei suoi uomini, morto bruciato. Scoperchiò ad una ad una tutte le trentasette giare e ogni volta lo spettacolo che vide fu lo stesso. Allora il capo dei ladroni capì che il suo trucco era stato scoperto e fu preso da una tale paura che, con un solo salto, scavalcò il muro del cortile e si sfracellò nel precipizio.
Quando Margiana fu sicura che il capo dei banditi era fuggito e che in casa tutto era tranquillo, spense la lampada e se ne andò a dormire come se niente fosse. La mattina di buon'ora si alzò e andò a svegliare il suo padrone Alì Babà e, presolo per mano, lo condusse nel cortile.
" Che significa questo, o Margiana? " le chiese Alì Babà. " Perchè mi hai svegliato così presto? "
rispose Margiana: " Per mostrarti qualcosa che t'interesserà. "
Margiana si avvicinò a una giara, ne tolse il coperchio di fibre di palma e:
" Ti prego, " disse al padrone, " da' un'occhiata qui dentro. " Alì Babà si avvicinò all'imboccatura della giara, guardò dentro e subito si ritrasse pieno di stupore e di raccapriccio.
" Che significa questo, o Margiana? Chi è quest'uomo? E come avviene che si trovi qui dentro? "
E quando Ali Babà, passando di stupore in stupore e di raccapriccio in raccapriccio, ebbe constatato che trentasette giare contenevano altrettanti uomini morti, Margiana lo prese per mano e fattolo sedere in un angolo del cortile gli raccontò per filo e per segno tutto quello che era accaduto e di cui fino a quel momento non aveva fatto parola con nessuno. E cominciò proprio dall'inizio, dal giorno, cioè, in cui aveva scoperto sulla porta di casa il segno fatto col gesso.
Quando ebbe terminato il racconto, Alì Babà scoppiò a piangere per la commozione, quindi, stringendosi al petto della fanciulla, la baciò e le disse:
" Figliola cara sia benedetto il giorno in chi tu sei entrata in questa casa! Hai fatto di più tu per noi che noi tutti per te. Io voglio che d'ora in poi tu sia come mia figlia e figlia della madre dei miei figli e che tu sia preposta al governo della casa e che i miei figli ti amino e ti rispettino come la loro sorella maggiore!"
Dopo di che Alì Babà, aiutato da Margiana e dallo schiavo Abdallàh, scavò una gran fossa in giardino e vi seppellì le giare con i trentasette ladroni .
Oramai il segreto della caverna lo conosceva solo Alì Babà e visse nelle agiatezze per moltissimi anni.

Anonimo
  



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Messaggio «LE MILLE E UNA NOTTE» 
 
«Sinbad il Marinaio»

Durante il regno del califfo Harùn ar-Rashìd, Emiro dei credenti, viveva nella città di Baghdad un uomo chiamato Sindbad il Facchino, il quale era molto povero e per guadagnarsi da vivere portava dei carichi sopra la testa.
Ora avvenne che un giorno di gran caldo, mentre trasportava una cesta assai pesante che lo faceva sudare e faticare moltissimo, il povero Sindbad si trovò a passare davanti alla porta di una ricca dimora. La strada davanti alla casa era stata spazzata e innaffiata e dal giardino veniva un delizioso venticello.
Vedendo che accanto alla porta c'era una panca, Sindbad depositò a terra la cesta e si sedette per riprendere fiato in quel luogo delizioso. E mentre stava seduto, asciugandosi il sudore e riflettendo sulla miseria della sua condizione, il vento gli portò dall'interno della casa il profumo di cibi squisiti, il suono di musiche e canti, un rumore di voci allegre e scoppi di risa e il cinguettare meraviglioso di uccelli d'ogni specie.
Allora Sindbad il Facchino alzò gli occhi al cielo e disse:
" Sia lode a te, o Allah, Creatore di tutte le cose, Signore Onnipotente che distribuisci la ricchezza e la miseria. Tu non devi rendere conto a nessuno di ciò che fai ed ogni uomo ha quel che gli tocca. Vi sono quelli, come il padrone di questa casa, che sono agiati e felici, e vi sono quelli che, come me, sono poveri e afflitti! Eppure siamo tutti di uno stesso seme. Ma a me è toccato in sorte portare carichi pesanti e ricevere in cambio solo miseria e afflizione. Scommetto che il padrone di questa casa non ha mai toccato nemmeno con un dito una cesta pesante come questa; eppure, egli si ristora al fresco di questo giardino. La sua sorte assomiglia alla mia quanto il vino assomiglia all'aceto. Tuttavia non credere, Signore, che io mi lamenti. Tu sei Grande, Magnanimo e Giusto. E se Tu governi così il mondo, vuol dire che è giusto che il mondo sia governato così! "
Quando ebbe terminato questa invocazione, Sindbad fece per rimettersi in capo la cesta e riprendere il cammino, allorché dalla porta della casa uscì un giovane servo, bello e ben vestito, il quale, presolo per mano, gli disse:
" Entra, perché il mio padrone desidera vederti. "
Sindbad lasciò la sua cesta in consegna al portinaio e seguì il servo, che lo introdusse in un meraviglioso salone dal pavimento di marmo, coperto di tappeti preziosi, e dove era imbandita una mensa ricchissima. Tutto intorno, su meravigliosi, cuscini, sedevano persone di riguardo; al centro, nel posto d'onore, sedeva un uomo dalla lunga barba bianca e dall'aspetto grave, dignitoso e nobile.
" Per Allah! " pensò Sindbad il Facchino, " questo luogo deve essere la dimora dì qualche re o di qualche sultano! "
Poi si ricordò di compiere quelli atti che esige la buona educazione e, dopo avere salutato rispettosamente gli astanti, si inginocchiò davanti al padrone di casa e baciò la terra. Con molta amabilità il padrone di casa gli diede il benvenuto, poi lo fece sedere accanto a sé le lo invitò a gustare cibi e bevande che il povero Sindbad non aveva mai assaggiato in tutta la sua vita. Quando questi ebbe finito di mangiare e si fu lavato le mani,
" Sia lode a Dio! " disse e ringraziò tutti i presenti per le loro gentilezze.
Come vogliono le buone regole, solo quando vide che il suo ospite si era rifocillato il padrone di casa prese ad interrogarlo:
" Benvenuto in casa mia, e che la tua giornata sia benedetta! Ma dimmi, o mio ospite, come ti chiami e che mestiere fai? "
" Mi chiamo Sindbad il Facchino, o signore, e il mio mestiere consiste nel portare carichi sulla testa. "
Il padrone di casa sorrise e gli disse: " Sappi, o facchino, che il tuo nome è uguale al mio; infatti, io mi chiamo Sindbad il Marinaio. Ora vorrei pregarti di ripetere qui ciò che dicevi poco fa mentre stavi seduto fuori della porta di casa mia. "
Allora Sindbad il Facchino si senti pieno di vergogna e disse:
" Nel nome di Allah, non rimproverarmi per la mia insolenza! La fatica e la miseria rendono l'uomo sciocco e maleducato! "
Ma Sindbad il Marinaio gli disse: " Non devi vergognarti. Ripeti senza alcuna preoccupazione ciò che dicevi perché tu ora sei come mio fratello. "
Allora il Facchino, rassicurato, ripete le parole che aveva pronunciato sulla porta di casa. Quando ebbe terminato, Sindbad il Marinaio si rivolse a lui e gli disse:
" Sappi, o Facchino, che la mia storia è senza precedenti. Ora ti racconterò tutte le avventure che mi sono capitate e tutte le prove che ho dovuto subire prima di giungere a questa felicità e di poter abitare nel palazzo in cui tu mi vedi. Sentirai quanti disagi e quali terribili calamità io abbia dovuto affrontare per poter ottenere gli agi che circondano ora la mia vecchiaia. Sappi dunque che io ho fatto numerosi viaggi, e ogni viaggio fu un'avventura meravigliosa, tale da destare in chi l'ascolta uno stupore senza limiti. Ma tutto ciò che ora ti racconterò è avvenuto perché era scritto, e da ciò che è scritto non v'è scampo né rimedio! ".

Primo viaggio di Sinbad il Marinaio

Sappiate, o illustri signori, e te, onesto Facchino, che mio padre era mercante di professione e uno dei più ricchi che ci fossero nel suo tempo. Quando mio padre morì, mi lasciò grandi ricchezze in denaro, merci, case e terreni. Io, purtroppo, nella insipienza della gioventù, presi a frequentare compagnie dissipate, passavo il mio tempo a bere e giocare e in festini e in conviti e non mi avvedevo che le mie ricchezze, per quanto grandi fossero, andavano sempre più scemando. Un giorno, finalmente, mi riscossi da quel mio stordimento e mi accorsi che tutte le mie sostanze erano dilapidate. Mi ricordai allora delle parole del nostro signore Salomone, figlio di Davide;
" Tre cose sono migliori di tre altre: il giorno della morte è meglio del giorno della nascita, un cane vivo è meglio di un leone morto, la tomba è preferibile alla povertà. "
Misi insieme allora quel poco che mi era rimasto e lo vendetti all'incanto ricavandone tremila dirham. Poi ricordai il verso del poeta:
"Chi vuole la gloria senza fatica, passerà la vita inseguendo un sogno impossibile."
Senza por tempo in mezzo, mi recai al suk, dove acquistai per duemila dirham di merci. Quindi con la mia roba salii su una nave, dove erano già imbarcati diversi mercanti, e scesi lungo il Tigri fino a Bassora. Di qui la nave spiegò le vele verso il mare aperto.
Viaggiammo per giorni e notti, toccando un'isola dopo l'altra e una terra dopo l'altra; e in ogni luogo dove ci fermavamo scendevamo a terra a vendere ed a scambiare le merci.
Un giorno, dopo che navigavamo da parecchio tempo senza avere avvistato un solo lembo di terra, improvvisamente vedemmo sorgere davanti a noi un'isola che sembrava il paradiso. Il capitano fece vela verso l'isola e, ormeggiata la nave, scendemmo tutti a terra, dove alcuni prepararono i fornelli per cucinare, altri si misero a passeggiare contemplando le bellezze del luogo. Io fui fra questi ultimi.
Mentre ce ne stavamo così, godendoci la bellezza di quel sito, a un tratto sentimmo la terra che tremava sotto i nostri piedi e udimmo il capitano che, sporgendosi dalla murata della nave, gridava:
" Passeggeri, salvatevi! Fate presto! Risalite subito a bordo! Lasciate ogni cosa, se tenete alla vita! Fuggite l'abisso che si spalanca sotto di voi! Perché l'isola su cui vi trovate non è un'isola, ma una balena gigantesca, che da tempo immemorabile si è adagiata in mezzo al mare. La balena è rimasta così da tanto tempo che il mare l'ha ricoperta di sabbia, e le sono cresciuti sul dorso gli alberi che vedete! Voi, accendendo i fuochi per cucinare, l'avete risvegliata, ed ecco che ora si muove e vi trascinerà con sé negli abissi! Salvatevi, abbandonate tutto! " .
Udendo queste parole del capitano, i passeggeri, presi dal terrore, si misero a correre verso la nave abbandonando le loro robe, i fornelli, le pentole. Ma la balena era già in movimento e la nave stava già levando le ancore, così che solo alcuni riuscirono a salire a bordo. Gli altri, quelli che si trovavano più lontano o che si erano attardati a raccogliere le loro cose, furono travolti dalle onde e sommersi nel mare profondo.
Io fui fra questi ultimi. Ma Allah Altissimo e Misericordioso mi salvò dalla morte facendomi capitare sotto mano un grosso mastello di legno, di quelli che si usano per fare il bucato. Io mi ci misi sopra a cavalcioni e muovendo disperatamente i piedi come fossero remi cercai di raggiungere la nave che si allontanava a vele spiegate. La seguii per un pezzo, finché non la vidi sparire all'orizzonte, e mi ritrovai in mezzo al mare, solo e derelitto, sicuro ormai di morire.
Per una notte e un giorno, fui sballottato dalle onde e dai venti. Alla fine le correnti marine mi gettarono contro un'isola rocciosa. Aiutandomi con le mani e con i piedi riuscii ad attaccarmi a dei cespugli e a salire in cima alle scogliere. Quando toccai terra, mi esaminai il corpo e vidi che era tutto gonfio e martoriato e che i piedi recavano i segni dei morsi dei pesci. Ma non sentivo alcun dolore, tanto ero sfinito. Mi gettai a terra e per la stanchezza svenni. Rimasi a lungo così, in questo stato d'incoscienza, e mi risvegliai solo al secondo giorno, quando il sole cominciò a battermi addosso.
Feci per alzarmi in piedi ma le gambe, gonfie e piagate, non mi reggevano. Considerai la miseria del mio stato, ma con la forza della disperazione cominciai a trascinarmi per terra, fino a che, dopo molto patire, giunsi in mezzo ad una pianura, dove scorrevano ruscelli e crescevano alberi da frutta. Rimasi in quel luogo molti giorni, bevendo l'acqua dei ruscelli e mangiando la frutta, finché non mi sentii guarito e rifocillato. Quando fui in grado di alzarmi, mi fabbricai un bastone con il ramo di un albero e cominciai a passeggiare ammirando tutto ciò che Allah aveva creato su quella terra.
Un giorno, che camminavo lungo la spiaggia del mare, vidi di lontano qualcosa che mi parve essere una bestia selvaggia o un mostro marino. Curiosità e paura si combattevano in me, sì che facevo dieci passi avanti e cinque indietro. Alla fine mi feci coraggio e, avvicinandomi, potei vedere che si trattava di una bellissima giumenta, legata a un paletto sulla riva del mare. Mentre stavo là a contemplare la bestia, essa emise un alto nitrito ed ecco che da sotto terra sbucò un uomo, il quale mi venne dietro gridando:
" Chi sei tu? E da dove vieni? Per quale motivo ti sei avventurato fin qui? "
" Signore, " risposi, " sappi che io sono uno straniero e mi trovavo insieme ad altri passeggeri su una nave che ha fatto naufragio. Tutti i miei compagni sono morti, ma Allah mise fra le mie gambe un mastello che mi tenne a galla e così arrivai sino alle sponde di questa terra. "
Quando quell'uomo ebbe udito le mie parole, mi prese per mano e mi disse: " Seguimi! "
Scendemmo in una caverna sotterranea ed entrammo in una grande sala, dove mi fece sedere e dove mi portò da mangiare. Poiché avevo fame, mangiai di buon appetito e quando egli vide che ero rifocillato e il mio animo era tranquillo, mi chiese di raccontargli per filo e per segno tutto ciò che mi era accaduto; io gli raccontai la mia storia fin dal principio senza trascurare nulla, ed egli dimostrò grande meraviglia. Quando ebbi finito il mio racconto, gli dissi:
" In nome di Allah, signore, non prendertela con me se ora ti chiedo una cosa. Io ti ho raccontato la verità sulla mia condizione. Ora vorrei che tu mi dicessi chi sei e per quale motivo abiti in questa sala sotterranea e perché tieni una giumenta legata sulla riva del mare! "
" Sappi, " mi rispose, " che siamo in parecchi sparsi sulle spiagge di quest'isola e siamo tutti guardiani dei cavalli del re Mihragiàn. Tutti i mesi, quando c'è la luna nuova, scegliamo una giumenta di razza e la leghiamo sulla riva del mare, poi ci nascondiamo in queste caverne sotterranee. Ed ecco che, attirato dall'odore della femmina, esce dal mare un cavallo marino e si guarda intorno e non vedendo nessuno piomba sulla giumenta e la copre. Quando ha finito di montarla si avvia verso il mare, ma la giumenta che è legata non può seguirlo e allora comincia a nitrire e a scalpitare. E il cavallo marino grida e la colpisce con la testa e con le zampe. Allora noi che siamo nascosti qui sotto sappiamo che il cavallo marino ha finito di montare la giumenta e usciamo fuori dal nostro nascondiglio e cominciamo a correre e a gridare e il cavallo marino spaventato si tuffa di nuovo tra i fiotti. Così la giumenta, fecondata, rimane pregna e partorisce un puledro che vale un tesoro, perché non ve ne sono di eguali sulla terra. E proprio oggi è il giorno in cui verrà il cavallo marino. Quanto a me, ti prometto di accompagnarti, quando tutto sarà finito, dal nostro re Mihragiàn e di farti conoscere il nostro paese benedici Allah, il quale ha fatto sì che io t'incontrassi, perché senza di me tu saresti morto di tristezza e di solitudine su quest'isola e nessuno dei tuoi amici e dei tuoi parenti avrebbe più saputo nulla di te. "
Invocai su di lui le benedizioni di Allah e lo ringraziai per la sua cortesia; e mentre stavamo ancora parlando, ecco che uscì dal mare lo stallone; si guardò intorno e, dopo aver cacciato un forte nitrito, saltò sulla cavalla e la coprì. Quando ebbe terminato smontò dalla giumenta e voleva portarsela via con sé, ma quella non poteva muoversi a causa del paletto, e tirava calci e nitriva. In quel momento uscì fuori dalla caverna il guardiano della giumenta con in mano una spada e uno scudo che percuoteva facendo un grande fracasso. E intanto andava chiamando i suoi compagni che sbucavano di sotto terra da tutte le parti, anch'essi gridando e facendo baccano. Allora lo stallone impaurito lasciò la giumenta e tuffatosi nelle acque sparì sotto la superficie del mare. Quando tutto fu finito, anche gli altri palafrenieri, che recavano a mano una giumenta ciascuno, mi vennero vicino e mi chiesero chi fossi e di dove venissi.

Io raccontai a loro tutta la mia storia, ed essi si felicitarono con me, poi stesero per terra la tovaglia e ci rifocillammo. Dopo mangiatO mi fecero salire su una delle loro cavalle, e così viaggiammo fino a che non giungemmo nella città dove abitava il re Mihragiàn. Giunti che fummo a destinazione, i palafrenieri si recarono dal loro sovrano e lo informarono del mio arrivo, e questi chiese che io gli fossi condotto dinanzi. Il re Mihragiàn mi salutò con molta amicizia, dandomi il benvenuto, poi mi chiese di raccontargli la mia straordinaria avventura e quando ebbi finito esclamò:
" Per Allah, figlio mio, la tua salvezza è davvero un fatto miracoloso! Se tu non fossi destinato a vivere a lungo, non saresti scampato al naufragio; sia lodato Allah che ti ha tratto in salvo! "
Ciò detto, mi parlò con amicizia e considerazione, colmandomi di doni e di onori, e mi nominò anche capo del porto incaricandomi di tenere il registro di tutte le navi che entravano e uscivano. Così io presi a frequentare regolarmente il sovrano, il quale non mancava di dimostrarmi la sua benevolenza preferendomi a tutti gli altri suoi intimi e ricoprendomi di vesti preziose.
Salii a tal punto nella sua stima che la gente, quando aveva bisogno di qualche cosa, chiedeva a me di intercedere presso il sovrano. Nonostante tutto questo, però, non avevo dimenticato il mio paese e, ogni volta che mi trovavo a passare per il porto e vedevo giungere una nave, mi affrettavo a interrogare ì marinai sulla mia città, chiedendo loro se avessero notizie di Baghdad. E invariabilmente quelli mi rispondevano di non aver mai sentito nominare una città simile e di non sapere nemmeno dove si trovasse. Mi convinsi così che non avrei mai più veduto il mio paese e avrei dovuto finire i miei giorni in terra straniera. Un giorno, recatomi a trovare il re Mihragiàn, lo trovai in compagnia di alcuni signori indiani i quali mi chiesero notizie del mio paese ed io chiesi ad essi notizie del loro. Costoro mi dissero che gli indiani erano tutti divisi in caste,e che le caste più importanti erano quella degli Kshatria, composta da uomini nobili e giusti che non commettevano mai soprusi né facevano violenza a nessuno, e quella dei Bramani, i quali sono della gente che non beve vino ma ama trascorrere la vita in lieta serenità e possiede cammelli, cavalli ed armenti. Mi dissero anche che il popolo indiano è diviso in settantadue caste, che non hanno rapporti fra loro, il che mi stupì grandemente.
Fra le altre cose che vidi nelle terre del re Mihragiàn, c'era un'isola chiamata Kasil, dove ogni notte e per tutta la notte si sentivano suonare tamburi e tamburelli; [sonatore di tamburo] ma sia gli abitanti delle isole vicine, sia i viaggiatori mi assicurarono che il popolo di quell'isola era composto da gente seria ed assennata. In quel mare vidi anche un pesce lungo duecento cubiti e molto temuto dai pescatori; vidi anche un altro pesce che aveva la testa simile a quella di un gufo e molte altre cose rare e meravigliose che sarebbe troppo lungo riferire.
Occupavo così il mio tempo visitando le isole, finché un giorno, che me ne stavo nel porto con il mio bastone in mano secondo l'abitudine che avevo preso, osservai una grande nave carica di mercanti che entrava in porto. Quando la nave si fu accostata alla banchina che è sotto le mura della città, il capitano ordinò di ammainare le vele e di ormeggiare il bastimento. Ciò fatto, misero fuori una passerella e i marinai cominciarono a scaricare le mercanzie mentre io, che stavo lì accosto, ne prendevo nota.
Alla fine chiesi al capitano: "E' rimasto niente altro nella tua nave? "
E quello mi rispose: " Signore, nella stiva sono rimaste diverse balle di mercanzia il cui proprietario è annegato durante il viaggio. Noi le abbiamo prese in consegna ed ora ci ripromettiamo di venderle facendone registrare il prezzo, che consegneremo poi ai parenti dello scomparso quando torneremo a Baghdad, città della pace. "
" E quale era il nome di questo mercante? " m'informai.
" Si chiamava Sindbad il Marinaio, " rispose il capitano.
Allora io lo guardai più dappresso e lo riconobbi e, gettato un gran grido, esclamai: " Capitano! Sappi che sono io quel Sindbad il Marinaio che viaggiava con voi; e quando il pesce si mosse e tu ci chiamasti, alcuni riuscirono a mettersi in salvo ed altri caddero in acqua; io fui fra questi. Ma Allah Onnipotente mi mise a portata di mano un mastello di legno al quale mi aggrappai, e i venti e le correnti marine mi gettarono su questa isola dove per grazia di Allah, incontrai alcuni servi del re Mihragiàn che mi condussero dal loro signore. E quando gli ebbi raccontato la mia storia egli mi colmò di benefici e mi nominò sovrintendente del porto. E in questa carica, come tu mi vedi, ho vissuto con larghezza, beneficato dal favore del sovrano. Perciò le balle che tu hai nella nave sono mie. "
Allora il capitano esclamò: " Non c'è maestà né potenza se non in Allah, il Glorioso, il Grande! Bisogna dire però che fra gli uomini non è rimasta né coscienza né buona fede! "
" Capitano, " dissi io, " Che significano queste parole, dopo che ti ho raccontato la mia storia? "
E quello rispose: " Quando hai sentito che avevo nella stiva queste merci il cui proprietario era annegato, hai pensato bene di volertele prendere con l'inganno. Ma non potrai farlo, perché noi l'abbiamo visto sprofondare nel mare con i nostri occhi, insieme con molti altri passeggeri, nessuno dei quali si è salvato. Quindi, come puoi pretendere di essere il padrone di queste merci? "
" Capitano, " dissi io, " ascolta tutta la mia storia senza prevenzioni e la verità ti apparirà manifesta. "
Così gli raccontai per filo e per segno tutto quanto mi era accaduto da quando ero partito da Baghdad fino al momento in cui eravamo sbarcati sul pesce isola, dove per poco non facemmo naufragio tutti; gli rammentai anche alcuni particolari che solo io e lui potevamo conoscere. Allora il capitano e i mercanti si convinsero che dicevo la verità e si complimentarono con me per la mia salvezza. Dopo di che il capitano mi consegnò le merci, e su ogni balla trovai scritto il mio nome e vidi che non mancava nulla. Cercai allora fra le mie robe e trovai un oggetto prezioso, e con quello mi recai dal sovrano al quale lo offrii in omaggio raccontandogli tutto quanto era avvenuto poco prima al porto.

Il re si stupì moltissimo di questo fatto e contraccambiò il mio regalo con ricchi doni. Nei giorni che seguirono, vendetti le mie merci guadagnando molto denaro e comprai altre mercanzie e oggetti tipici di quel paese. Poi, quando il capitano della nave mi annunciò che aveva intenzione di partire, andai dal re Mihragiàn, lo ringraziai della bontà che aveva avuto per me e gli chiesi licenza di tornare in patria, per rivedere il mio paese, la famiglia, gli amici.
Il re acconsentì di buon grado e mi regalò altre merci e prodotti della sua terra; poi mi congedò affabilmente e io, sceso al porto, m'imbarcai. Poiché così piacque ad Allah, viaggiammo senza inconvenienti per giorni e per notti e alla fine giungemmo a Bassora, dove sbarcai, felice di essere tornato sano e salvo sul suolo natio.
Rimasi alcuni giorni a Bassora, poi, portando meco grandi quantità di merci rare e preziose, partii per Baghdad, città della pace, ove entrai dopo un felice viaggio e, giunto nel mio quartiere e nella mia casa, amici e parenti vennero tutti a salutarmi e a rallegrarsi con me. Grazie al denaro che avevo, e alla gran copia di merci che avevo portato con me e che vendetti, acquistai eunuchi e concubine e schiavi e comprai case e giardini e terre, diventando cosi più ricco di quanto lo fossi stato prima.
Allora, senza darmi alcun pensiero al mondo, mi misi a frequentare gli amici trascorrendo con loro il tempo, dimentico dei pericoli, degli affanni e delle pene che avevo patito durante quel viaggio avventuroso. Gustai ogni piacere ed ogni delizia, mangiai cibi raffinati e bevvi vini squisiti, e andai avanti in questo modo per parecchio tempo, ché le mie ricchezze mi permettevano di condurre questo treno di vita.
Questa è la storia del mio primo viaggio, e domani, se Allah lo vuole, vi racconterò il secondo dei miei numerosi viaggi. Quindi Sindbad il Marinaio ordinò che venissero date a Sindbad il Facchino cento monete d'oro e gli disse:
" La tua presenza ci è stata molto gradita oggi." Il Facchino lo ringraziò e, preso il dono, se ne andò per la sua strada, riflettendo su quanto aveva udito e non cessando di meravigliarsi per le cose incredibili che possono capitare a un uomo. Quando si fece giorno, tornò a casa di Sindbad il Marinaio, che lo ricevette con gentilezza e lo fece sedere accanto a sé. Non appena gli altri amici del padrone di casa furono arrivati, vennero approntate le mense e tutti mangiarono e bevvero a sazietà.

Da Le Mille e una Notte
  



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Secondo viaggio di Sindbad il Marinaio

Sappiate, fratelli miei, che io vivevo, come vi ho detto ieri, una vita serena ed agiata e non mi mancava nulla, fino a che un giorno nell'animo mio tornò a nascere il desiderio di viaggiare nei paesi degli uomini visitando isole e città nuove. Una volta che tale desiderio si fu insinuato nell'animo mio, non ebbi pace fino a che non presi la decisione.
Raccolsi tutto il denaro liquido che avevo in casa, acquistai gran copia di merci e di provviste e scesi sulla riva del Tigri, dove vidi, in procinto di salpare, una bella nave nuova di zecca, con grandi vele di tela robusta, bene attrezzata ed equipaggiata. Insieme con altri mercanti salii a bordo, dopo aver fatto caricare tutte le mie merci, e quello stesso giorno salpammo le ancore.
Navigammo felicemente per diversi mari, toccando porti e isole, e dovunque scendevamo a terra, salutati dalla gente, dai mercanti e dai notabili del luogo e concludevamo buoni affari vendendo e comprando.
Alla fine Allah volle che prendessimo terra in un'isola amena, tutta verdeggiante di alberi, dai quali pendevano frutti saporosi. L'aria di quest'isola era profumata dai fiori e risuonava per il canto di numerosi uccelli; dovunque scorrevano ruscelli d'acqua limpida e cristallina ma, per quanto cercassimo, non scorgemmo alcuna traccia di uomini: non vedemmo né abitanti né case.
Il capitano mise la nave alla fonda e i mercanti scesero a terra per godersi la frescura degli alberi, il profumo dei fiori e il canto degli uccelli, lodando l'Unico, il Vittorioso, l'Onnipotente che aveva creato tali meraviglie. Anch'io scesi con gli altri portando a terra qualche provvista. e mi sedetti vicino ad una fonte mangiando quello che Allah mi aveva destinato.
L'aria in quel luogo era così dolce, il profumo dei fiori cosi fragrante, che, dopo mangiato, mi stesi sull'erba per fare un pisolino. Quando mi svegliai, mi trovai solo; la nave era partita con tutti i suoi passeggeri e nessuno si era ricordato di me.
Cominciai a cercare affannosamente a destra e a sinistra, ma non trovai né uomini né spiriti. Ero completamente solo su quell'isola disabitata. Mi prese allora un grande sconforto e la vescica del fiele fu sul punto di rompersi per l'amarezza e l'afflizione. Disperando di poter mai uscire da quel luogo mi dissi:
" Cadi oggi e cadi domani, la giara finisce per rompersi! La prima volta riuscii a salvarmi perché qualcuno mi ricondusse nei paesi abitati, ma questa volta temo proprio che non vi sia speranza per me! ".
In un accesso di rabbia contro me stesso, mi misi a piangere e a gemere, rimproverandomi di avere voluto affrontare ancora una volta le incertezze e i pericoli di un viaggio per mare, quando a casa non mi mancava nulla e avevo tutto ciò che potevo desiderare e trascorrevo una vita serena e felice. Mi pentii amaramente di aver lasciato Baghdad, soprattutto dopo aver fatto l'esperienza del primo viaggio, durante il quale poco era mancato ch'io non perdessi la vita.
Allora esclamai: " Noi siamo cose di Allah ed a lui dobbiamo ritornare! "
Sentendomi impazzire, quasi in preda a un sortilegio, cominciai a camminare avanti e indietro senza sapere dove andassi né che cosa facessi. Alla fine mi arrampicai su un albero altissimo e cominciai a scrutare l'orizzonte, ma non vidi altro che cielo e mare, alberi e uccelli, isole e sabbia. Tuttavia, dopo un poco, guarda che ti riguarda, scorsi in lontananza verso l'estremità dell'isola una forma biancheggiante. Scesi dall'albero e mi diressi a quella volta e, quando fui abbastanza vicino, mi accorsi che quell'oggetto bianco era una grande cupola che si levava alta verso il cielo.
Cominciai à girarle intorno, ma non riuscii a trovare né porte né pertugi. Cercai di arrampicarmi, ma la cosa mi riuscì impossibile, perché la cupola era straordinariamente liscia e non offriva alcun appiglio. Tracciai un segno per terra nel luogo in cui mi trovavo e girai attorno alla cupola constatando che la sua circonferenza era di buoni cinquanta passi. Mentre me ne stavo lì a lambiccarmi il cervello sul modo migliore di entrare in quella cupola, ecco che d'un tratto il sole si oscurò, come se una grande nuvola lo avesse coperto. La cosa mi meravigliò moltissimo perché eravamo d'estate e il cielo era limpido e terso; allora levai in alto gli occhi e vidi un uccello dalla mole enorme e dalle ali larghissime che, volando nell'aria, aveva nascosto completamente il sole all'isola.
A quella vista il mio stupore non ebbe limiti; ma subito ricordai di aver sentito viaggiatori e pellegrini raccontare di un uccello enorme, chiamato Rukh, che abitava in una certa isola e che nutriva i suoi piccoli con gli elefanti. Non ebbi più dubbi che la cupola che aveva attirato la mia attenzione fosse un uovo del Rukh. Mentre io non finivo di meravigliarmi per le opere dell'Onnipotente, l'uccello si posò sulla cupola e cominciò a covarla, accovacciandosi con le zampe tese indietro. In questa posizione si addormentò, sia lode all'Insonne!
Quando fui sicuro che l'uccello dormiva, mi avvicinai, sciolsi il turbante e lo attorcigliai facendone una corda robusta e molto resistente e me ne legai strettamente un capo alla vita; l'altro capo lo assicurai a una zampa dell'uccello dicendomi:
" Chissà che questo uccello non mi porti in una terra dove siano uomini e città; questo sarà meglio che rimanere in un'isola deserta. "
Quella notte non dormii per tema che l'uccello volasse via all'improvviso. Non appena apparve in cielo il primo chiarore dell'alba, il Rukh si alzò dall'uovo, spalancò le enormi ali e, gettando un grido assordante, si levò in volo trascinandomi con sé. Salì e salì tanto in alto che pensai avesse raggiunto il limite del cielo; poi, a poco a poco cominciò a discendere fino a che prese terra in cima ad un'alta collina.
Non appena mi sentii la terraferma sotto i piedi, mi affrettai, con mani tremanti dalla paura, a scioglierne dal Rukh temendo che si accorgesse di me. Tuttavia l'uccello non mi prestò alcuna attenzione, ma si guardò in giro e dopo un poco vidi che aveva afferrato fra gli artigli qualcosa. Guardai più attentamente e mi accorsi che si trattava di un serpente dalle proporzioni smisurate. Tenendo ben stretta fra le zampe la sua preda, l'uccello si levò di nuovo in volo e dopo poco sparì dalla vista.
Pieno di meraviglia per ciò che mi era capitato e che avevo visto, avanzai fino al ciglio della collina e vidi al miei piedi una valle ampia e profonda, circondata da monti la cui altezza sarebbe impossibile descrivere; basterà dire che erano tanto alti che l'occhio umano non riusciva a scorgerne le vette. Quando ebbi visto il luogo in cui mi trovavo, esclamai:
" Avesse voluto il cielo che fossi rimasto su quell'isola! Quanto era meglio di questo deserto! Per lo meno laggiù c'era frutta da mangiare e acqua da bere, mentre qui non vi sono né alberi, né frutti, né ruscelli. Ma non vi è né grandezza né potenza se non in Allah, il Glorioso! Mi par proprio che il mio destino sia quello di scampare da un pericolo per cadere in un pericolo maggiore. "

Tuttavia mi feci coraggio e scesi verso la valle per esplorarla meglio. E fu allora che mi accorsi che il fondo della valle era fatto di diamanti, ma vidi anche, purtroppo, che il luogo era popolato di serpenti grossi come tronchi di palma, capaci di mangiare con un solo boccone un elefante o un bufalo, e tutti questi serpenti di giorno si nascondevano per paura dell'uccello Rukh e di notte uscivano fuori dai loro antri. Vedendo ciò, non potei fare a meno di esclamare:
" Per Allah, quanta fretta ho avuto di precipitarmi verso la morte! " Poiché il giorno stava per finire, pensai di cercare un nascondiglio dove passare la notte al riparo da quei serpenti spaventosi.
Guarda e guarda, alla fine scorsi una caverna con una entrata stretta; mi infilai in quel pertugio, feci rotolare una grossa pietra bloccandone l'ingresso e mi sedetti per terra tirando un sospiro di sollievo e dicendomi:
" Se Dio vuole, per questa notte sono in salvo; domani non appena farà giorno uscirò e vedrò quello che il destino tiene in serbo per me! ".
Ciò detto mi guardai intorno e allora i capelli mi si rizzarono sulla testa dalla paura e cominciai a sudare freddo, perché in fondo alla caverna c'era un enorme serpente acciambellato, intento a covare le sue uova. Mi raccomandai allora ad Allah misericordioso e, cercando di non muovermi e di non fare rumore, mi rincantucciai in un angolo e trascorsi la nottata in preda al timore. Appena si fece giorno, tolsi la pietra dall'apertura dell'antro e uscii fuori, barcollando come un ubriaco, stordito dall'insonnia, dalla fame e dalla paura.
Cominciai a girare per la valle pensando al modo di uscirne, quand'ecco che d'un tratto mi vidi cadere davanti ai piedi una bestia scannata. Alzai gli occhi e non vidi nessuno. Me ne stavo ancora stupito da quest'altro fenomeno , quando mi ricordai di aver sentito raccontare una volta da viaggiatori e mercanti che le montagne di diamanti sono luoghi pieni di pericoli e inaccessibili, ma che coloro i quali cercano i diamanti usano uno stratagemma per appropriarsene. Dall'alto di un monte gettano in fondo alla valle pecore scannate e quarti di bue, e le pietre di diamante che sono in fondo alla valle si attaccano alla carne ancora fresca.
I mercanti rimangono poi in attesa fino a che, a giorno fatto, non sopraggiungono aquile ed avvoltoi che, scorgendo la preda, la afferrano con gli artigli e se la portano in cima al monte. I mercanti piombano allora addosso agli uccelli emettendo alte grida e spaventandoli, così che quelli volano via. Allora essi tolgono le pietre di diamante rimaste attaccate alla carne fresca e se ne tornano ai loro paesi con il carico prezioso lasciando la carne alle aquile e agli avvoltoi. Né pare vi sia altro mezzo, se non questo, per impadronirsi dei diamanti.
Così, quando mi vidi cadere davanti quell'animale sgozzato, mi ricordai di questa storia e subito corsi a riempirmi le tasche, le pieghe dell'abito, il turbante con le pietre più belle che riuscii a trovare. Mentre ero intento a far ciò, ecco che mi vidi cadere davanti ai piedi un'altra bestia, più grande, sgozzata. Allora mi legai ad essa con il turbante e mi distesi per terra, lasciando che la carcassa dell'animale mi coprisse tutto.
Mi ero appena messo in posizione, quand'ecco una grossa aquila calò giù dal cielo, afferrò la carne con gli artigli e volò via trasportando anche me, che stavo aggrappato alla carcassa dell'animale ucciso. E tanto volò che giunse in cima a un monte, dove si posò. E stava per azzannare l'animale, sotto il quale io ero nascosto, quand'ecco si udirono strepiti e grida e l'aquila impaurita volò via. Allora io mi sciolsi dalla carcassa e mi alzai in piedi. Ed ecco che apparve il cercatore di diamanti che aveva gettato in fondo alla valle quella carcassa e vedendomi lì in piedi si prese paura non sapendo se io fossi un uomo o uno spirito. Poi si fece coraggio, si avvicinò alla bestia e non trovandovi alcun diamante attaccato cominciò a gemere e a lamentarsi battendo il petto:
" Povero me! Povero me! Solo nella maestà e nella potenza di Allah troviamo rifugio contro Satana il lapidato! Ahimè, povero me! Che faccenda è questa? "
Allora io mi avvicinai a lui ed egli mi disse:
" Chi sei tu e come mai ti trovi in questo luogo? "
E io: " Non temere. Io sono un uomo e non uno spirito: sono un onest'uomo e faccio il mercante. La mia storia è incredibile, le mie avventure sono meravigliose e il modo in cui sono giunto qui è prodigioso. Dunque sta' di buon animo e non temere nulla da me; e anzi, per dimostrarti la mia buona disposizione, ti darò tanti diamanti quanti tu non ne avresti mai potuti trovare attaccati a questa carne e più belli di quelli che tu abbia mai raccolto. Perciò, non temere nulla. "
A queste parole l'uomo si rallegrò e mi ringraziò e mi benedisse. Poi ci mettemmo a chiacchierare insieme, fino a che gli altri cercatori, sentendomi discorrere con il loro compagno, si fecero avanti e mi salutarono. Allora io raccontai tutta la mia storia e dissi delle sofferenze che avevo patito e del modo in cui ero giunto in fondo a quella valle. Quindi diedi al padrone della bestia macellata un certo numero di pietre fra quelle che avevo indosso ed egli fu molto contento ed invocò su di me ogni benedizione dicendo:
" Allah deve averti decretato una nuova vita, perché nessuno prima di te è mai sceso in quella valle e ne è uscito vivo. Sia dunque lodato Allah per la tua salvezza. "

Passammo la nottata in un luogo sicuro e piacevole, mentre io mi rallegravo per essere scampato alla valle dei serpenti e per essere giunto fra persone civili. La mattina di poi ci mettemmo in viaggio, attraversando l'imponente catena di monti e vedendo molti serpenti nella valle, finché alla fine giungemmo in una bellissima isola, dove c'era un giardino con grandissimi alberi di canfora, ognuno dei quali, con i suoi rami, poteva fare ombra a cento uomini .
Quando gli abitanti del posto hanno bisogno di canfora, con un lungo ferro fanno un buco nella parte superiore del tronco, ed ecco che dal buco esce acqua di canfora, che sarebbe la linfa dell'albero, ed essi la raccolgono in grandi recipienti dove subito diventa densa come resina. Però dopo questa operazione l'albero muore ed è buono solo per farne legna da ardere.
In questa stessa isola c'è una specie di bestia selvatica, chiamata karkadann, che pascola nei prati come da noi le vacche e i bufali, ma il suo corpo è più grande di quello di un cammello e si ciba di foglie d'alberi e di arbusti. È, un animale notevole, con un corno grande e grosso, lungo dieci cubiti, piazzato in mezzo alla fronte. e se questo corno si spacca in due dentro vi si vede la figura di un uomo.
Viaggiatori e mercanti dicono che questa bestia, chiamata karkadann, ha tanta forza che è capace di portare infilzato sul corno un elefante e continuare a pascolare per l'isola e lungo la costa senza avvedersene, fino a che l'elefante muore e il suo grasso, sciogliendosi al calore del sole, scorre negli occhi del karkadann e lo acceca. Allora l'animale si getta a terra sulla spiaggia adagiato su un lato e poi arriva il grande uccello Rukh, che lo afferra tra gli artigli e lo porta ai suoi piccoli i quali si cibano del karkadann e dell'elefante che ha infilzato sul corno.
In quell'isola vidi anche molte specie di buoi e di bufali che non hanno nulla a che vedere con quelli che si trovano nei nostri paesi. Colà vendetti una parte dei diamanti, cambiandoli in dinàr d'oro e in dirham d'argento, e con altri comprai alcuni prodotti del luogo; poi, dopo aver caricato su bestie da soma le merci, continuai a viaggiare con i mercanti di valle in valle e di città in città comprando e vendendo, osservando i paesi stranieri e le opere e le creature di Allah, fino a che giungemmo alla città di Bassora dove sostammo qualche giorno; dopo di che, congedatomi dai mercanti, continuai il mio viaggio verso Baghdad.
Qui giunto, mi riunii agli amici e ai parenti, dispensai il denaro in elemosine ed opere di carità e feci ai miei amici molti regali con gli oggetti che avevo portato dai paesi stranieri. Poi, col cuore leggero e con l'animo sgombro da ogni affanno, pensai solo a mangiare bene, a bere meglio e a trascorrere il tempo serenamente. E tutti quelli che udivano del mio ritorno a casa venivano a trovarmi e mi facevano una quantità di domande sulle avventure che avevo avuto e sui paesi stranieri che avevo visto. Ed io raccontavo loro tutto ciò che mi era successo e quello che avevo sofferto, e questo era motivo per tutti di grande gioia e non v'era chi non si rallegrasse perché ero tornato sano e salvo.
In tal modo si conclude la storia del mio secondo viaggio e domani, se Allah lo vuole, vi racconterò quello che mi accadde durante il terzo viaggio.
Quando i presenti ebbero finito di esprimere la loro meraviglia per questo racconto, furono portati i cibi e tutti cenarono abbondantemente. Poi Sindbad il Marinaio ordinò che venissero date cento monete d'oro a Sindbad il Facchino, il quale le prese, ringraziò e andò ad accudire alle sue faccende, continuando a stupirsi per le avventure capitate a Sindbad il Marinaio e lodando in cuor suo Allah che lo aveva salvato e benedicendo il suo benefattore.

Da Le Mille e una Notte
  



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Messaggio «LE MILLE E UNA NOTTE» 
 
Aladino

Aladino era un ragazzo che abitava in una città della lontana Arabia, e che non aveva una gran voglia di lavorare.
Anzi, non ne aveva nessunissima voglia. Inutilmente suo padre, che faceva il sarto, lo rimproverava, lo incitava a cercarsi un’occupazione:
"Diventerai uomo e ti dispiacerà d’aver perduto tanto tempo. Agli oziosi vengono brutte idee per la testa".
"Sarà quel che sarà", rispondeva Aladino.
Morto il padre, il ragazzo continuò a bighellonare da mattina a sera. E un giorno, mentre stava giocando, come al solito, con alcuni amici, gli si avvicinò un forestiero.
"Sei tu il figlio del sarto?", gli domandò costui.
"Sì", rispose Aladino, "ma mio padre è morto da qualche anno".
Il forestiero si mise a piangere: "Povero fratello mio. Ero venuto qui dall’Africa, dove vivo, per riabbracciarlo. Oh, che disgrazia!".
"Voi dunque sareste mio zio?", si stupì Aladino. "Non assomigliate a mio padre nemmeno un po’. Comunque venite, vi porto da mia madre".
Nemmeno la donna aveva mai saputo dell’esistenza di quello zio, che tuttavia le piacque perché assicurava di volersi prendere cura di Aladino, che lo avrebbe indotto a lavorare, e l’avrebbe fatto diventare ricco.
"Verrai con me. Ti porterò in un posto che sarà la tua fortuna", disse. E, preso per mano Aladino, che in realtà avrebbe preferito restarsene a casa, lo costrinse a seguirlo.
Camminarono per alcune settimane finché, giunti in una radura, il forestiero rivelò ad Aladino chi egli fosse in realtà.
"Non sono tuo zio, ma un mago. Ho deciso di renderti ricco, anzi ricchissimo. Lo vedi questo macigno? È pesante, ma tu dovrai spostarlo. Lì sotto c’è una caverna piena di diamanti. Ci entrerai e quell’immenso tesoro sarà tuo".
Aladino era molto diffidente. E aveva ragione. Lui non lo sapeva, ma quello era un mago cattivissimo.
Attraverso terrificanti sortilegi aveva scoperto dov’era nascosto il più fantasmagorico tesoro del mondo, che contava, tra le tante meraviglie, una piccola lampada dagli straordinari poteri. Ma aveva anche scoperto che c’era una pietra a chiudere l’antro in cui quel tesoro era custodito, e che a sollevarla poteva essere una sola persona: quel fanciullo di nome Aladino.
Così, intendeva servirsi di lui.
Per vincere la diffidenza di Aladino, perciò, il mago non esitò a consegnargli un anello.
"Mettilo al dito, non togliertelo mai. È un anello magico: ti sarà d’aiuto in tante occasioni. In cambio, tu per me dovrai fare una cosa: portarmi la piccola lampada che troverai in fondo alla caverna".
Incuriosito, Aladino a quel punto decise di spostare il macigno.
Sotto c’era una scala che scendeva, profondissima, e il ragazzo la discese. Si trovò così in una grandissima caverna, con degli alberi meravigliosi dai cui rami pendevano, invece dei frutti, grappoli di brillanti, e ce n’erano da riempire cento sacchi, a raccoglierli.
Aladino non sapeva che cosa fossero i brillanti, però il loro luccichio gli piacque. Così ne colse alcune manate e se ne riempì le tasche.
Vide anche la lampada. La prese, e cominciò a risalire verso l’imboccatura della caverna, dove il mago lo attendeva sempre più impaziente.
"Dammi la lampada, presto", gli ordinò il mago.
Era sua intenzione, non appena ottenuto ciò che gli stava a cuore, far ricadere il ragazzo nel baratro per lasciarvelo morire.
"No, prima voglio uscire", s’insospettì Aladino.
"Prima la lampada!".
"No. Prima mi tiri fuori!".
A questo punto il mago, arrabbiatissimo, disse una formula magica e l’imboccatura del sotterraneo si richiuse sul povero Aladino che, disperato, piangeva a dirotto. E mentre piangeva, passava inavvertitamente le dita sull’anello, strofinandolo.
Sappiamo già che l’anello era magico. Sollecitato a quel modo, esso rivelò subito i suoi poteri. Infatti, in una luce abbagliante, davanti ad Aladino apparve un genio.
"Comanda cosa vuoi", disse il genio ad Aladino inchinandosi, "e io ti accontenterò".
"Riportami subito a casa", fu la richiesta.
In men che non si dica, il ragazzo si ritrovò dalla madre, le mostrò le pietre preziose e la lampada che aveva con sé.
La donna trasalì, comprendendo la straordinarietà di quanto vedeva.
Nervosamente si mise a pulire la lampada che, essendo magica, era la casa di un genio ancor più potente di quello dell’anello.
Richiamato da quel gesto, il nuovo genio subito le comparve davanti.
"Sono al tuo servizio", s’inchinò. "Ordina e io ti esaudirò".
Fino ad allora, nella povera casa di Aladino si era sofferta la fame, perciò ella chiese una tavola imbandita con gustose vivande e buon vino.
Immediatamente la tavola fu apparecchiata: una tavola principesca, che ritornò tutti i giorni, due volte al giorno.
Sostenuto dalla buona sorte, Aladino smise di oziare, lavorò, si dette buon nome. La gente giunse persino a lodarlo, a riverirlo.
Un giorno Aladino intravide, non visto, la bellissima figlia del re che usciva a passeggio. Non visto, in quanto se ne stava nascosto perché, quando la principessa usciva in pubblico, tutti dovevano rinchiudersi in casa e non ardire di alzare gli occhi su di lei, pena la morte.
Ma la curiosità aveva indotto il giovane a dare una sbirciatina. E subito se ne innamorò.
"Madre, voglio sposare la principessa".
"Oh, povero figlio mio. Sei impazzito?", trepidò la donna.
"Mai stato più in senno, madre. Ecco qui una ciotola di brillanti. Vai in udienza dal re, che ti riceverà. E tu, offrendogli un dono così strabiliante, gli dirai che glielo mando io, e che voglio sposarne la figlia".
Tremando di paura per l’ardire, la madre di Aladino si recò dal re, e fece ciò che le aveva detto il figlio.
Visto l’inestimabile tesoro recatogli in dono, il re si rallegrò. Se regalava simili ricchezze al suo re, quel giovane ben poteva essere lo sposo della principessa.
Per celebrare degnamente le nozze, Aladino strofinò la lampada e chiese al genio di costruirgli un palazzo più bello di quello del re.
E subito, ecco sorgere dal nulla la nuova, meravigliosa dimora di Aladino e della sua sposa.
Tutto, dunque, sembrava procedere per il meglio. E non ci sarebbero state complicazioni di sorta nella vita dei due, se non fosse accaduto che il mago che aveva cercato d’ingannare Aladino, rimpiangendo continuamente la lampada perduta, non avesse insistito nei suoi esperimenti per sapere che cosa ne fosse stato del ragazzo, se egli fosse morto davvero nel profondo della caverna.
Seppe così che non solo Aladino era vivo, ma possedeva, oltre all’anello, anche la lampada magica. Perciò, pieno di stizza, ripartì alla volta dell’Arabia.
Quando vide lo splendido palazzo di Aladino, una rabbiosa invidia prese a tormentarlo. Non volendosi arrendere alla fortuna dell’altro, si travestì da mercante, attese che Aladino accompagnasse il re in un viaggio nei reami vicini, si fece ricevere dalla principessa e, un po’ con parole sdolcinate, un po’ per magia, la trasse in inganno.
Le fece credere cioè che la lampada custodita dal suo sposo era vecchia e non valeva nulla: gliela avrebbe cambiata con una bella lampada nuova.
La principessa, ignara di tutto, accettò.
Avuta fra le mani, finalmente, la lampada magica, il mago ordinò al genio di trasportare il palazzo di Aladino, con tutti i suoi abitanti, in Africa. E il genio non poté far altro che ubbidire.
Non appena tornato dal viaggio, non vedendo più né il palazzo né la principessa, Aladino comprese ciò che era accaduto.
Ma non si perse d’animo. Strofinò l’anello che aveva ricevuto tanto tempo prima dal mago e che sempre portava al dito.
Rapido apparve il primo genio, quello che lo aveva salvato dalla caverna dove il mago lo aveva rinchiuso.
"Riportami subito qui mia moglie e il mio palazzo, ovunque essi siano", gli ordinò Aladino.
Gli rispose il genio: "Ogni tuo desiderio per me è un ordine, padrone. Ma questo non posso esaudirlo. Perché l’incantesimo è stato compiuto dal genio della lampada, che è molto più potente di me".
"E allora portami dalla principessa", disse Aladino.
In men che non si dica, era già in Africa, nel suo palazzo, al fianco della sua sposa, disperata, in lacrime, perché temeva di dover dire addio per sempre ad Aladino, al padre, al suo Paese.
La felicità dei due, quando si riabbracciarono, è facile da immaginare.
"E adesso", disse Aladino alla principessa, dopo averle confidato la sua lunga avventura con il mago, "ci riprendiamo la lampada".
"Ma come?", rispose lei, dubbiosa.
"È facile. Inviti a cena il mago, che essendo un grande vanitoso, si lascerà conquistare dai tuoi complimenti. E tu gliene farai tanti..."
"Io, Aladino, fargli dei complimenti?".
"Sì, mia diletta. E lo farai bere tanto. Anzi, per essere più sicuri, metterai del sonnifero nella sua coppa di vino".
"Ho capito", sorrise la principessa.
Tutto avvenne secondo il previsto. Non appena il mago si addormentò, Aladino, che fino ad allora s’era tenuto nascosto, venne fuori, tolse la lampada dalle mani del mago e la strofinò. Ed ecco apparire il genio.
"Tu, genio", comandò Aladino, "porta questo mago dove nessuno lo possa mai più trovare. E riporta questo palazzo, con tutto ciò che contiene, in Arabia".
Così avvenne.
E in Persia, Aladino e la principessa vissero felici, a lungo.
Potrebbe darsi che, a cercarli proprio bene, magari con l’aiuto di qualche genio, si riesca ancora oggi a trovarli là.
  



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Messaggio «LE MILLE E UNA NOTTE» 
 
«LE MILLE E UNA NOTTE» (in 16 volumi)
«ТЫСЯЧА И ОДНА НОЧЬ» (комплект из 16 книг)
Traduzione al russo: Mikhail Sallier (Михаил Салье)
Casa Editrice «Mir knighi» Mosca 2004 (Pagine 4800)
Издательство «Мир книги» Москва 2004

Una celebre raccolta di novelle orientali di origine egiziana, mesopotamica, indiana e persiana, costituita a partire dal X secolo. Il numero «1001» non va preso alla lettera. Al contrario, «mille» significa in arabo «innumerevoli» e quindi 1001 significa un numero infinito. Dalla traduzione russa condotta dal noto arabista ed orientalista russo Mikhail Sallier (Михаил Салье, 1899-1961) e pubblicata dal 1932 al 1939 nelle edizioni dell'Accademia sovietica delle scienze di Leningrado. La presente edizione del 2006 in 16 volumi della raccolta «Le mille e una notte» («Тысяча и одна ночь») resta un gran regalo a tutti gli appassionati russi delle favole orientali. Quella vecchia edizione dell’anno 1939 è completamente irreperibile ed è una rarità bibliografica.    

  

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Descrizione: «LE MILLE E UNA NOTTE» (in 16 volumi)
Traduzione al russo: Mikhail Sallier
Casa Editrice «Mir knighi» Mosca 2004 (Pagine 4800) 
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Zarevich
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