Oggetto: «IL CAVALLO NEL SIMBOLISMO RITUALE»
Posto uno stupendo articolo su un animale che ammiro ed amo tanto, che unisce la mia cultura isolana al popolo Russo, la Sardegna come rappresenta assai bene il bronzetto nuragico possiede una cultura fortemente legata al cavallo, nell'Isola vi sono momenti di particolare intensita' dove il cavallo e' al pari del cavaliere protagonista di feste religiose e sagre, dove i cavalieri accompagnano nelle preghiere le processioni per le vie dei paesi i Santi guerrieri come Sant'Efisio a Cagliari, o l'Ardia dedicata a San Costantino a Sedilo solo per citarne alcune ma l'elenco e' assai ricco.

Momenti di Festa come il Carnevale di Oristano con la sua sorprendente "Sartiglia" dove i cavalieri hanno modo di esibirsi in acrobazie in sella ai loro meravigliosi cavalli, tutto questo per dire che il cavallo e' molto amato, lo si deduce dalla cura e dalle colorare e eleganti bardature che vengono realizzate in queste occasioni di festa, occasioni dove il sardo mette in campo tutta la sua "balentia" (valore,atto di coraggio) ho scoperto leggendo delle genti cosacche che il termine in Russo ДЖИГИТОВКА esprime tutto il valore della maestria e abilità di essere un tutt'uno con il cavallo, mondi lontani uguale spirito e sentire, ugual coraggio e amore per il cavallo.

piu' in la' daro' seguito a questo articolo postando le prodezze dei sardi e dei temerari cosacchi, genti che sento molto affine alla mia gente, spirito libero, indomito quanto religioso e fiero, la steppa come la Sardegna offre spazi dove lo sguardo si perde nell'infinito orizzonte, dove l'Uomo e' solo con se stesso e la Natura e' l'unica protagonista, dove il silenzio si fa preghiera, li i cavalli corrono liberi e selvaggi, luoghi di sorprendente forza e magia.



AL GALOPPO TRA STORIA E LEGGENDA.

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Fibbia a forma di cavallo nell'atto di saltare, sepoltura kobana, bronzo, 12,9cm (lunghezza); San Pietroburgo, Museo Statale Ermitage


La storia del cavallo e del suo profondo rapporto con l’uomo ha radici ancestrali, talmente durature da poter affermare che, tra tutti gli animali, sia stato quello che ha segnato in maniera più decisiva il percorso evolutivo della razza umana.
La primissima forma di addomesticazione del cavallo risale all’alba dei tempi: il contatto iniziale con i cacciatori-raccoglitori preistorici, per i quali il cavallo era una semplice preda come altre, non era stato tra i più felici finché, seimila anni fa, nelle lontane steppe del Kazakistan scattò la scintilla: quando l’uomo capì di trovarsi di fronte a un animale che, se ammaestrato, poteva diventare sufficientemente docile da farsi cavalcare, la storia non fu più la stessa.
I primi allevatori poterono giovarsi non solo di quella possanza fisica, di quell’agilità e facilità di corsa di cui loro, per propria natura, non disponevano, ma anche di un forte e inatteso legame affettivo che fino ad allora erano riusciti a dare soltanto i «cani-lupi». Il cavallo dimostrò da subito di essere in grado di adempiere a compiti piuttosto complessi, nella gestione delle greggi e soprattutto nell’addomesticazione di interi branchi di propri simili, altrimenti difficilmente controllabili; Ben presto, grazie alla sua capacità di sopperire alle mancanze fisiche dell’uomo, gli equini furono messi di fronte alle più svariate attività, diventando fedeli strumenti, o meglio, guardiani e custodi dell’uomo tanto al lavoro, quanto in guerra.
Di fronte all’umano stupore il cavallo doveva per forza accogliere in sé connotati divini: gli Sciti, popoli nomadi delle steppe, lo adoravano; i Germani ammantarono la sua silhouette di sacralità. Animale tipicamente sciamanico, il cavallo era un messaggero dell’Aldilà, uno spirito ausiliario ed estatico per il cui tramite intraprendere viaggi mistici. Secondo visioni ricorrenti presso tribù anche lontane nello spazio e nel tempo, la cavalcata simbolica esprimeva la trance estatica attraverso cui lo sciamano accompagnava il defunto nel Regno dei Morti per comunicare e contrattare con gli dei. Basti pensare al culto di Sleipnir, cavallo a otto zampe di Odino «che scivola rapidamente» e porta rune incise sui denti, che in Germania fu abolito soltanto nel XII secolo.




I primi cavalli, invero, erano ben diversi da quelli attuali: poco più grandi dei pony, tozzi e pelosi, la loro altezza al garrese non era superiore ai 130 cm (razze Tarpan, Przewalskii). I primi popoli storici a introdurne l’uso in maniera consistente furono gli indoeuropei Ittiti e Mitanni, che li esportarono dall’Eurasia fino in Mesopotamia. A seguire Assiri, Babilonesi ed Egizi diedero il via con una cura tutta particolare ai primi «incroci», in cerca di nuove specie dalle caratteristiche più utili ai casi specifici: fu così che il cavallo divenne ben presto diverso da com’era stato un tempo.
Secoli di selezione crearono nuove specie dotate di forza e velocità che in natura non si erano mai conosciute: sempre più maestosi, intelligenti e tuttavia docili ai comandi, lungi dal rivestire il ruolo di meri strumenti da lavoro, cavalli sempre più «puri» divennero protagonisti di un particolare rapporto di simbiosi con l’uomo, contraddistinto da fedeltà e dedizione, tanto nelle attività quotidiane quanto nelle imprese di guerra più pericolose. Proprio l’utilizzo bellico e come mezzo di trasporto portò il valore del cavallo e la sua considerazione sociale alle stelle anche presso Greci e Romani, come ben dimostrano le numerose opere d’arte: in tal senso la leggenda omerica del Cavallo di Troia parla chiaro. Sempre Omero, che amava definire i Troiani «domatori di cavalli» nell’Iliade cantò: «avresti detto che anche il cavallo era consapevole della bellezza del suo padrone e che si accorgeva di portare, lui bello, il più bello dei cavalieri: infatti, agitando la criniera, con le orecchie dritte e la testa levata, andava avanti fiero di sé e di colui che portava, battendo il suolo con la punta degli zoccoli, adattando il suo passo a una cadenza misurata».
il cavallo era profondamente legato al suo padrone, imperatore o condottiero che fosse, da un rapporto simbiotico; il nobile animale, accompagnando le gesta del suo cavaliere alla stregua di uno spirito protettore, finì immortalato nell’arte di tutti i popoli antichi: inciso su bassorilievi, scolpito nel marmo e colato nel bronzo, dipinto sulle pareti e sul vasellame.
Nella cultura guerriera, tanto barbarica quanto classica, il cavallo è quindi tutt’uno con il suo cavaliere, perché è anch’esso artefice delle vittorie di quest’ultimo, oltre che suo quotidiano compagno di battaglie fondate sulla velocità e la destrezza. Gli imperatori romani amavano far immortalare la propria immagine in statue equestri di bronzo dai muscoli guizzanti, con le criniere scompigliate e uno zoccolo proteso in avanti; le colonne trionfali celebravano le vittorie di centurioni e destrieri nelle stragi di massa dei «barbari»: proprio quei Daci, Sciti e Sarmati che per primi avevano allevato i cavalli ora vedevano le loro città distrutte per sempre. Se presso quei popoli, in epoca arcaica, il cavallo era stato stato associato al regno dei morti e come tale sacrificato ai defunti con l’eroe caduto in battaglia, successivamente fu accomunato alle divinità solari: un destriero, infatti, era l’animale da tiro che trainava il «carro del cielo» condotto da Apollo, Mitra ed il cristiano Elia.

Questo stretto e continuo fenomeno di antropizzazione portò presto a riconoscere nel cavallo, come del resto anche in altri animali, vizi e virtù degli uomini. Il greco Artemidoro (II sec d.C) nella sua «Oneirocritica» scriveva che sognare di «montare un cavallo da corsa che obbedisce bene alle redini e al cavaliere» fosse un presagio favorevole di una futura unione carnale con una donna; il più celebre Ovidio, nella sua «Ars amatoria» (1 a.C. o 1 d.C.) consigliava agli sciupafemmine di non perdersi «le corse dei nobili cavalli: l’ippodromo affollato presenta grandi vantaggi. Le cavalle infoiate impazziscono e vanno per contrade lontane, inseguendo i cavalli dai quali li divide il fiume… datti da fare, impiega questi rimedi forti con la tua donna» concludeva il poeta abruzzese, non senza una dose di compiacimento. Ovidio avrebbe pagato a caro prezzo le sue rime licenziose con l’esilio nella lontana colonia di Tomi, sul mar Nero: proprio nelle antiche terre degli Sciti, da tempo colonizzate, e apparentemente al sicuro dai cavalieri delle steppe…ma per quanto tempo ancora?
Mentre un nuovo impero, quello bizantino, sorgeva a Oriente, quello d’Occidente era giunto allo stremo. Le prime avvisaglie trapelano dalle testimonianze del vescovo di Milano Ambrogio (IV sec d.C), quando «gli Unni assalirono gli Alani, gli Alani assalirono i Goti, i Goti assalirono Taifali…». Questo effetto domino produsse una tale ondata di popolazioni che, nel giro di un secolo, i Romani furono sconfitti più volte. I popoli della steppa erano tornati dalle tenebre del passato: primi fra tutti gli Unni, i quali emergendo da un mondo remoto e in parte sconosciuto, l'Oriente sconfinato, provocarono un'ondata di terrore senza precedenti. Lo storico Ammiano Marcellino, terrorizzato, nelle sue Rerum Gestarum (IV sec d.C) sul conto degli Unni riferì: «per quanto abbiano la figura umana, sebbene deforme, sono così rozzi nel tenore di vita da non aver bisogno né di fuoco né di cibi conditi, ma si nutrono di radici di erbe selvatiche e di carne semicruda di qualsiasi animale, che riscaldano per un po' di tempo fra le loro cosce ed il dorso dei cavalli. Per questa ragione sono poco adatti a combattere a piedi, ma inchiodati, per così dire, su cavalli forti, anche se deformi, e sedendo su di loro alle volte come le donne, attendono alle consuete occupazioni. Stando a cavallo notte e giorno ognuno in mezzo a questa gente acquista e vende, mangia e beve e, appoggiato sul corto collo del cavallo, si addormenta così profondamente da vedere ogni varietà di sogni. E nelle assemblee in cui deliberano su argomenti importanti, tutti in questo medesimo atteggiamento discutono degli interessi comuni…».

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"Un bronzetto rinvenuto a Salìu nel Sulcis rappresenta una figura di cavallerizzo che, in piedi sul dorso di un cavallo, scocca una freccia da un arco."

I «rozzi e barbari unni» ovviarono per la prima volta all’ignoranza, da parte dei Romani, di tecniche evolute di sellatura e ferratura di staffe, la cui assenza fino a quel momento aveva reso la cavalcata decisamente instabile. Solo grazie all’applicazione delle nuove tecnologie fu possibile sfruttare appieno le capacità muscolari e l’agilità del cavallo. Nel frattempo, a Oriente l’Impero bizantino si scontrava con la possente cavalleria Persiana, abituata ad attirare i Romani in deserti senz’acqua per soffocarli con la povere e la sabbia e trafiggerli con frecce in grado di perforare la lorica più resistente: i bassorilievi presso la necropoli iraniana di Naqŝe Rostam mostrano ancora, a distanza di mille e seicento anni, i purosangue Neani del regno di Persia, bardati secondo la moda sassanide, con selle decorate a fiori geometrici, ciuffi di piume sul capo, code annodate e criniere rasate da un lato schiacciare con zoccoli possenti i nemici sconfitti dagli Scià di Persia. Presto la pesantezza di tali armate orientali sarebbe stata spazzata via dalla leggerissima cavalleria islamica del califfo Abu Bakr, abituata a resistere al calore del deserto e specializzata in imboscate tra le tempeste di sabbia.
Proprio in questa fase si ebbe il graduale passaggio dalla cosiddetta cavalleria pesante romana e persiana, dove cavalli robustissimi ma lenti sostenevano il peso enorme di cavalieri dotati di armature in ferro, alla cavalleria leggera, che affidava le sue possibilità di vittoria alla maggiore agilità e velocità del cavallo, debitamente addestrato per compiere operazioni militari. Il Medioevo stava per avere inizio, e con esso, l’Età dell’Oro del cavallo.




Altri barbari appresero le tecniche degli Unni: primi fra tutti le infinite carovane dei Goti che, apparsi già sulle coste del mar Nero già nel III secolo, mettendosi in marcia tra Italia e Spagna e sconfiggendo gli Unni, due secoli dopo avrebbero posto le basi per la definizione di nuove comunità complesse del mondo occidentale: i regni Romano-Barbarici.
Tra tutti gli animali, pur non scordando mai l’orso e soprattutto il lupo, una delle specie a cui l'uomo si sentiva più affine e che meglio di altri rappresentava l'incarnazione delle sue aspettative, i suoi sogni e i suoi desideri, doveva restare sempre il cavallo: incarnazione di intrepidezza e nobiltà.
Le fonti ricordano ancora la fierezza e l’altissima stima goduta, al tempo, dal cavallo turingio o «stellato»: una specie rarissima, dal manto color dell’argento. I cavalli dei Goti passarono ai posteri tanto per la loro bellezza, quanto per il coraggio e la forza nell’affrontare qualsiasi impresa e comprendere ogni ordine impartito, «perché discendevano da una razza assai bellicosa, allevata su pascoli invernali».




D’altra parte il noto storico Tacito, già mezzo millennio prima nel «De Germania» (I sec d.C) aveva dato risalto all’abitudine dei Germani di giovarsi degli ammonimenti dati loro dai loro stessi cavalli. Essi ritenevano che, proprio come i Greci antichi, tra tutti gli animali solo il cavallo potesse provare emozioni di dolore tali da piangere per un uomo. Anche per questo, presso i Goti mangiare carne di cavallo costituiva reato gravissimo.
Stroncati dalle insidie della Guerra Greco-Gotica (535-553), gli Ostrogoti cedettero il passo ai Longobardi: «Gens etiam Germana Feritate Ferocior» (popolo addirittura più feroce della ferocia germanica,) i cui spostamenti a cavallo segnarono modifiche molto profonde sugli assetti dell’Occidente.
Mai venuti a contatto coi Romani, i Longobardi si vantavano con fierezza del loro «stato brado». In una forma di civiltà progenitrice di quella vichinga, il cavallo svolgeva un ruolo talmente importante che, come chiosa l’Editto di Rotari (VII sec. d.C) «portare le armi e andare a cavallo è un privilegio concesso esclusivamente a uomini liberi». Anche nella mitologia di questi popoli è sempre il cavallo, montato da valchirie, a trasportare gli uomini tra le braccia degli dei dell’Olimpo germanico: il Walhalla. I Longobardi, che avevano vissuto più di cinquant’anni in Ungheria, attraverso i vicini Àvari, diretti discendenti degli Unni ma ancor più bellicosi, avevano appreso tutto quanto vi era da conoscere sui più ancestrali riti guerrieri un tempo appartenenti agli Sciti: l’intera esistenza di questo nuovo popolo nordico temprato dalla steppa ruotava interamente attorno alla venerazione per il cavallo. Perfino le donne d'alto rango, sebbene l'Editto di Rotari lo vietasse, si misuravano coi rischi del tempo galoppando a caccia di bestie feroci.




Con la fondazione della Langobardia Maior, lo stanziamento comportò l’importazione e la diffusione in Italia di usi e costumi di origine asiatica: gli eccezionali ritrovamenti archeologici di San Mauro a Cividale del Friuli e di Vicenne in Molise attestano il particolare rituale della sepoltura del cavaliere insieme al suo destriero: il guerriero e il suo migliore amico, sacrificato per l’occasione, furono uniti nella morte così come lo erano stati in vita.
La presenza del destriero immolato accanto al suo padrone, oltre al grande attaccamento nei confronti della cavalcatura, ribadì ancora una volta il primordiale ruolo di «psicopompo», ossia accompagnatore delle anime dei morti nell'Oltretomba. Il ritrovamento di staffe in tutte le tombe di guerrieri dimostra l’uso di equipaggiamento equestre avanzato già dal VI secolo. Il seppellimento contestuale dell'uomo e del cavallo si era già peraltro segnalato un secolo prima presso la necropoli Ostrogota torinese di Collegno.
Nell’atmosfera tipicamente malinconica e rarefatta delle saghe germaniche, lo stesso autore del poema sassone Beowulf (VII sec.d.C) dopo aver ricordato i suoi cavalli validi in guerra lanciati al galoppo con i manti fulvi dove le vie dei campi sono più conosciute, mise sulla bocca del protagonista, mortalmente ferito dal drago e ormai giunto alla fine dei suoi giorni, queste significative parole: «È scomparso il piacere dell’arpa, il diletto del legno sonoro; non vola più nella sala il bravo falco, il mio cavallo veloce non scalpita più nella stalla, dentro la rocca. Una mala morte ha scacciato via le specie viventi. Così, con mente lugubre, Beowulf piangeva la sua pena».
A parte questa e poche altre eccezioni, perdute le leggende tramandate per via orale in assenza di un autore greco o romano che potesse trascriverle, possiamo aiutarci con l’etimologia della lingua italiana, che nelle parole di origine germanica ha conservato chiari riferimenti all’onnipresenza del cavallo: «blank» si riferiva al loro mantello chiaro, «marh» significava cavallo marrone, poi più semplicemente cavallo, da cui derivava anche il termine «mahrskalk» ossia maniscalco; «blada» era la biada, «bregdan» significava tirare le briglie, «wiffa» era un fascio di paglia e la «stalhalle» o casa lunga di legno, tipica degli insediamenti rurali, divenne la stalla per i cavalli.
Il nobile equino visse però la vera sua età dell'oro dall’VIII al XIV secolo, quando divenne il simbolo stesso della società feudale e del più potente dei gruppi umani dell'epoca: la cavalleria barbarica dei Carolingi.




Il terreno fu preparato dall'utilizzo della cavalleria pesante, che sfruttava la nuova tecnica dell’inarrestabile forza d'urto promossa da Carlo Magno e dai suoi successori, che strutturarono tutta la società franca al punto da permettere il reclutamento e il mantenimento di una efficace forza di cavalleria. Con «l’adozione per arma», secondo una consuetudine ancora di stampo barbarico, il rapporto vassallatico consentiva ai primi signori feudali di procurare ai loro vassalli il cavallo da guerra, lo scudo e le armi in cambio del servizio militare e dell’impegno di radunarsi al «campo di Marzo» al fine di misurare la forza e la coesione collettiva: la stessa coesione con cui i Franchi, dopo 3 secoli di tentativi, misero fine al regno longobardo d’Italia. Il legame psicologico dei giuramenti e la forza tecnica del cavallo sellato, ferrato e munito di staffe fecero di questa disordinata accozzaglia di uomini, senza strategia né disciplina militare, una macchina da guerra poderosa.
Fu da quel momento in poi, grazie ai Franchi e ai Normanni, che la figura corazzata del cavaliere in sella, armata di lancia o spada divenne l’immagine per eccellenza della guerra medievale; il destriero, di suo, incarnava più che mai gli antichi valori, d’ora in poi assimilati dai nuovi ideali cavallereschi. Presto la guerra avrebbe conosciuto un tripudio colorato d’infiniti simboli araldici: tra di essi anche forme mitologiche e idealizzate dello stesso cavallo, in veste di pegaso e unicorno.
Nella civiltà europea basso-medievale l’importanza di avere un cavallo da guerra definì lo status sociale della nuova classe dominante, ossia quella della nobiltà militare, fino al XIV-XV secolo. In quest’epoca la letteratura cavalleresca ci tramanda la memoria, spesso ammantata da una leggendaria aura nebbiosa di innumerevoli imprese compiute a cavallo. Informazioni sul come i cavalieri medievali concretamente montassero i loro destrieri e di come questi venissero domati, addestrati, accuditi ci giungono in maniera chiara dal trattato di Giordano Ruffo di Calabria, ufficiale negli allevamenti imperiali alla corte di Federico II. (prima metà del XIIII sec.). che tratta di allevamento, di alimentazione e riproduzione, di doma e addestramento, morsi, ferratura e struttura fisica dell’animale. Circa l’allevamento equino selettivo, l’allevamento dei cavalli nel Medioevo, pur importantissimo, non si basava più sul lignaggio genetico i cavalli, ma ai fini della loro destinazione pratica.



Come abbiamo visto fino ad ora, nell’immaginario pagano e militare il cavallo ha sempre evocato con unanimità i valori di libertà, forza e bellezza: ma non è stato sempre così. In particolare, la concorrenza del Clero ha permesso che la passione per le simbologie implicanti Vizi e Virtù fosse applicata anche sul cavallo con interpretazioni dal duplice aspetto: la Chiesa del Mille, non volendosi associare con troppo entusiasmo alla nascita della Cavalleria e al suo stile di vita dilagante, andò a rispolverare nelle citazioni dell’antico Fisiologo, capostipite di tutti i Bestiari moralizzati, passaggi veterotestamentari in cui cavallo era citato perlopiù negativamente: ed eccolo spiccare come campione di stolta alterigia, di passionalità sfrenata e incapacità di obbedire senza l’imposizione della forza. «Non siate come il cavallo e come il mulo privi di intelligenza», esorta ad esempio il salmista (Salmo 32, 9). E che dire del profeta Geremia? Drammatizzando la delusione del Signore per il tradimento dei figli del suo Popolo, egli li definì «come stalloni pasciuti focosi: ciascuno nitrisce dietro la moglie del suo prossimo» (Geremia, 5, 8). Come ignorare che il cavallo è anche forte, potente nella corsa e irresistibile in battaglia?
Questa caratteristica nell’Antico Testamento viene addirittura condannata, perché, ammonisce ancora salmista, «il cavallo non giova per la vittoria, con tutta la sua forza non potrà salvare». Solo chi confida in Dio e nella Salvezza verrà risparmiato. E il profeta Isaia: «guai a quanti scendono in Egitto per cercare aiuto e pongono la speranza dei cavalli senza cercare il Signore». Il destino di chi prenderà questa strada è impietoso come quello dei Faraoni che inseguirono gli Ebrei fuggiti dall'Egitto: «allora il terribile esercito del faraone fu travolto dalla potenza di Jahvé che ha gettato in mare cavallo e cavaliere». (Isaia, 31, 3).

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Cavallo Etrusco

Nel Nuovo Testamento, il messaggio giovanneo dell’Apocalisse, piuttosto criptico, vede raffigurati quattro cavalli: un cavallo bianco, e colui che lo cavalcava aveva un arco; un altro cavallo, rosso fuoco, al cui cavaliere fu consegnata una grande spada; quindi un cavallo nero, e colui che lo cavalcava aveva una bilancia in mano; infine un cavallo verdastro, a cui veniva dietro l'inferno.
Gli ultimi tre cavalieri sono chiaramente identificabili nelle personificazioni della guerra, la cui cavalcatura ha manto rosso sangue; della carestia, nera come la fame e della morte, con la cavalcatura livida come un cadavere in decomposizione. Ma il primo cavaliere, quello che monta il cavallo bianco, chi è? Forse non s tratta di una forza distruttrice, ma della figura del Cristo trionfante che monta sul destriero bianco della vittoria. Non a caso anche i cavalieri dell’iconografia cristiana, come San Giorgio che uccide il drago, San Martino che divide in due parti il suo mantello per donarne una a un povero, San Paolo che viene disarcionato sulla via di Damasco e Sant'Ambrogio che armato di flagello, irrompe fra le schiere nemiche montano tutti su cavalli bianchi. Gli esegeti affermano quindi che ci sono cavalli di Dio e cavalli del demonio.
Sant’Ambrogio stesso che amava andare a cavallo, considerò con saggezza che la simbologia del cavallo potesse essere considerata buona o cattiva a seconda che la virtù dei loro cavalieri, o meglio delle loro anime fosse stata in grado di cavalcarne o dominarne le passioni.
Resta il fatto che, in ogni caso, nell’immaginario collettivo fiabesco l'eroe, il buono, non potesse non montare una cavalcatura bianca: simbolo di purezza, riflesso della stessa nobiltà d'animo del cavaliere.
Nel Rinascimento, lo studio dell’equitazione in campo manualistico dimostrò che non vi fu altra attività dell'uomo in cui, nel corso della storia, fossero stati scritti così tanti testi di approfondimento. Ma il rapporto che si stabilì nei secoli tra uomo e cavallo si modificò gradualmente nell'ultimo periodo storico, da quando cioè il motore a scoppio trasformò il modo di viaggiare e di fare la guerra. Infine, dal Novecento in poi l'equitazione perse la propria importanza utilitaristica e si trasformò in attività meramente ludico-sportiva.
Eppure, il simbolo artistico del monumento equestre come simbolo di potenza e prestigio prospererà ancora per molto, in maniera più o meno politicizzata, in tutta Europa: basti pensare ai grandi studi artistici dedicati alla fisionomia equina effettuati dal Verrocchio, Donatello e da Leonardo da Vinci, ma anche alle numerose statue equestri post-risorgimentali, più o meno retoriche, che abbondano nelle nostre città dalla fine dell’800.




Ma che ne è stato dello «spirito originario» del cavallo? Dapprima mistificato da un clero fuorviato da interessi politici, obliato negli ultimi secoli dagli incroci estenuanti tra specie che, con la presunzione della purezza di sangue, hanno minato la salute e la resistenza di molti esemplari, esso pare essersi definitivamente volatilizzato. Unica possibilità forse, sarebbe quella di andare a rileggerlo in un passato molto recente ma ugualmente estintosi, in maniera tragica: quello degli indiani d’America. Introdotto nel Nuovo Mondo dagli Spagnoli del XVI, la diffusione graduale e il ripopolamento del cavallo furono incentivati da episodi come ribellioni, furti di bestiame e la cattura di esemplari precedentemente tornati alla vita selvatica.
Per gli indiani, che prima dell’arrivo degli Europei avevano sempre percorso lunghe distanze sulle loro gambe, tutto cambiò rapidamente. Come in una sorta di reminiscenza arcaica gli sciamani amerindi, con una sensibilità degna dei popoli celtici compresero da subito le potenzialità mistiche del cavallo, attribuendogli le antiche virtù protettrici dello spirito-guida. Fu così che, eletta la misteriosa creatura arrivata dall’Europa al primo posto tra i totem animali del selvaggio West, ne percepirono da subito l’energia ancestrale legata al mondo dell'aldilà. Essi, ritenendo che la forza simboleggiata dal cavallo fosse la saggezza, confidavano che il suo spirito si sarebbe avvalso della capacità di trovare per il suo cavaliere i passi giusti lungo strada nella vita presente, con l’aiuto delle reminiscenze di quelli realizzati nelle vite precedenti.
A tal proposito un vecchio saggio indiano avrebbe detto: «Fatti piccolo davanti a lui e quando vuoi qualcosa, chiediglielo. Vedrai che i tuoi occhi, attraverso i suoi, scopriranno un mondo che tu non hai mai visitato». Ed ecco il cavallo tornare ad essere inteso come medium spirituale, come chiave per carpire i segreti delle forze creatrici di un altro mondo: quel Nuovo Mondo che, con la sua immensa natura vergine, ha sopperito al lontano ricordo di un’antica Madre Terra, cancellata per sempre.

Marco Corrìas

tratto dal sito: http://viaggiatoricheignorano.blogspot.it



Ultima modifica di altamarea il 08 Mar 2016 20:22, modificato 4 volte in totale
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Oggetto: «IL CAVALLO NEL SIMBOLISMO RITUALE»
Il Cavallo Etrusco è incredibilmente bello. Mi ha sempre affascinato l’arte etrusca.



Ultima modifica di Zarevich il 07 Apr 2021 13:08, modificato 1 volta in totale
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L'arte Etrusca molto raffinata e di linee pulite e definite, forse non sapete ma nella cultura Etrusca vi e' stato accertato molto di sardo, sopratutto nell'area di Vetulonia, sono state rinvenute molte tombe di cui una particolare con ricchi arredi proveniente dalla cultura nuragica, come anche l'utilizzo dei vasi Askos rinvenute in notevole quantita' alcune di provenienza sarda altre costruite in loco ma seguendo la tipologia dell'Askos Sardo, vi rimando ad un articolo di un esperto etruscologo Giovanni Camporeale, solo occorre tener conto che la civilta' nuragica e' molto molto piu antica e precedente a quella Etrusca.

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necropoli di Tarquinia "tomba del Barone".

http://www.repubblica.it/online/spe...y/tirsenoy.html



Ultima modifica di altamarea il 08 Mar 2016 17:52, modificato 1 volta in totale
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Oggetto: «IL CAVALLO NEL SIMBOLISMO RITUALE»
Nel 2007 io ho scritto il mio post sul nostro forum del libro «La Civiltà Etrusca» dell’autore tedesco Werner Keller.
http://www.arcarussa.it/forum/viewtopic.php?p=7081#p7081



Ultima modifica di Zarevich il 07 Apr 2021 13:08, modificato 1 volta in totale
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Oggetto: Re: IL CAVALLO NEL SIMBOLISMO RITUALE
Tornando al bronzetto nuragico molto raro e prezioso seppur di linee tozze e' un unicum per rappresentazione e testimonia la spiccata pratica dell'equitazione in Sardegna, un cavallerizzo-arciere, un guerriero, che rappresenta e testimonia un legame antichissimo tra Uomo e Cavallo, tradizione tutt'ora molto viva in Sardegna come testimoniano le tante occasioni in cui Uomo e cavallo rendono omaggio ai Santi e ogni occasione e' buona per sfoggiare i cavalli bardati di tutto punto in certosine acconciature cosi raffinate, pare che per l'occasione i cavalieri diano il meglio nella loro creativita' e destrezza anche nei preparativi per gli eventi attesi tutto l'anno con particolare attenzione, tanto e' l'amore per la tradizione e per i cavalli.


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Ultima modifica di altamarea il 13 Mar 2016 21:36, modificato 5 volte in totale
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Oggetto: «IL CAVALLO NEL SIMBOLISMO RITUALE»
A casa mia c’è anche un altro libro sugli Etruschi ma io per ora non l’ho letto. Si dovrebbe mettermi a leggerlo. È un libro dell’autore francese tradotto in russo dalla Casa Editrice di Mosca «Molodaja Gvardia»:
Jacgues Heurgon Жак Эргон
«ПОВСЕДНЕВНАЯ ЖИЗНЬ ЭТРУСКОВ»
«LA VIE QUOTIDIENNE DES ETRUSQUES»
Casa Editrice «Molodaja Gvardia» Mosca 2009 (Pagine 336)
Издательство «Молодая гвардия» Москва 2009



Ultima modifica di Zarevich il 07 Apr 2021 13:09, modificato 1 volta in totale

La vie quotidienne des etrusques.jpg
Descrizione: Jacgues Heurgon
«LA VIE QUOTIDIENNE DES ETRUSQUES»
Casa Editrice «Molodaja Gvardia» Mosca 2009 (Pagine 336) 
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La vie quotidienne des etrusques.jpg


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Oggetto: «IL CAVALLO NEL SIMBOLISMO RITUALE»
Sartiglia Oristano, alcune immagini delle evoluzioni dei cavalieri nelle Pariglie.

La pariglia (sa pariglia in sardo) è una particolare corsa equestre praticata soprattutto in Sardegna durante la quale i cavalieri, solitamente due o tre accostati uno all'altro, si esibiscono in evoluzioni acrobatiche e spericolate in groppa ai cavalli lanciati in una corsa sfrenata.
Le acrobazie più praticate della corsa a pariglia sono

due su due, due cavalieri in piedi sulla sella dei loro cavalli si sostengono a vicenda durante tutta la corsa

ponte, due cavalieri seduti ne sostengono uno che si allunga disteso sopra le loro spalle

bastone, due cavalieri seduti ne sostengono uno in piedi sulle loro spalle che ha come unico punto d'appoggio un lungo bastone tenuto alto dai cavalieri sotto

verticale, due cavalieri seduti ne sostengono un terzo che si appende alle loro spalle rimanendo a testa in giù con le gambe rigide verso l'alto

sa sedda, i due cavalieri esterni, in piedi, si appoggiano a quello centrale e tolgono la sella al proprio cavallo in corsa mostrandola a pubblico

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Ultima modifica di altamarea il 13 Mar 2016 21:44, modificato 3 volte in totale
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Sa sartiglia - Oristano

La Sartiglia (Sartilla o Sartilia) è una corsa alla stella di origine medievale (1358) che si corre l'ultima domenica e il martedì di carnevale ad Oristano, dove carnevale e Sartiglia sono praticamente sinonimi. È una fra le più spettacolari e più coreografiche forme di Carnevale della Sardegna. Riecheggia ricordi sfumati di duelli e Crociate, colori spagnoleschi, echi di nobiltà decaduta e riti preistorici di rigenerazione agro pastorali.


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per piu' approfondite notizie visita i seguenti link troverai notizie storiche e tanti filmati della sorprendente Sartiglia.

https://it.wikipedia.org/wiki/Sartiglia

http://www.sartiglia.info/



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S'Ardia di San Costantino a Sedilo

Costantino è considerato santo dalla Chiesa ortodossa, che secondo il Sinassario Costantinopolitano lo celebra il 21 maggio assieme alla madre Elena.

La santità di Costantino non è riconosciuta dalla Chiesa cattolica (infatti non è riportato nel Martirologio Romano), che tuttavia celebra sua madre il 18 agosto.

A livello locale il culto di san Costantino è comunque autorizzato anche nelle chiese di rito romano-latino.
In Sardegna, per esempio, la festa del santo (nella tradizione religiosa sarda) ricorre il 7 luglio. In Sardegna c'è anche un intero santuario dedicato a San Costantino imperatore. Si trova a Sedilo, nel centro geografico dell'isola. Qui il 6 e 7 luglio di ogni anno si corre l'Ardia: una sfrenata e spettacolare corsa a cavallo di origine bizantina che rievoca la vittoria del 312 a Ponte Milvio.

L'Ardia consiste in una rituale processione a cavallo con tre tappe finali di corsa per raggiungere il santuario dedicato all'imperatore romano Costantino I (localmente chiamato Santu Antinu) che nel 312 sconfisse Massenzio, usurpatore a Roma, nella battaglia di Ponte Milvio



Questo sito illustra la storia di questa antica tradizione dove il cavallo prezioso compagno di ardita e sfrenata corsa intorno alla chiesa di San Costantino:

http://museosancostantino.comune.sedilo.or.it/107_276.php

http://museosancostantino.comune.sedilo.or.it/

http://www.sardegnaturismo.it/ru/ar...%B8%D0%BD%D0%B0
(sito in lingua russa)



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(In lingua sarda con traduzione in italiano)


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Ultima modifica di altamarea il 13 Mar 2016 21:55, modificato 5 volte in totale
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Sa Carrela 'e Nanti di Santu Lussurgiu.

Gli ultimi tre giorni del Carnevale la strada principale di Santulussurgiu diventa teatro di una delle corse equestri più belle, impegnative e spericolate della Sardegna insieme a Sa Sartiglia di Oristano e l'Ardia di Sedilo. Si tratta de Sa carrela 'e nanti, antico nome del percorso che si snoda lungo il centro storico, che vede le sue case e le sue viuzze affollate dai tantissimi turisti accorsi per quest'occasione e qui ospitati. La manifestazione, organizzata dal Circolo Ippico Lussurgese, dalla Pro Loco e dall'Amministrazione Comunale, prende avvio la domenica prima del Carnevale con le cosiddette prove, quando i cavalieri lussurgesi, non ancora mascherati, fanno conoscere ai loro cavalli il percorso che lì vedrà protagonisti la settimana successiva.

Il pomeriggio della domenica di Carnevale inizia la corsa vera e propria: i cavalieri, coi visi dipinti e vestiti con abiti multicolori, si allineano lungo s'iscappadorzu (il punto da cui inizia la corsa) per lanciarsi a gruppi di due, tre o quattro in ardite pariglie lasciando a bocca aperta la folla stupita. Il percorso è sempre lo stesso, uno sterrato che ricopre la via Roma nell'antico quartiere di Biadorru: gli zoccoli dei purosangue lussurgesi risuonano lungo le strettoie, le curve, i piccoli slarghi, le discese e la salita finale di questo lungo percorso che costeggia le antiche case. L'abilità dei cavalieri si esplicherà nella loro eleganza e compostezza, nel loro equilibrio e pulizia tecnica, nel riuscire a mantenere il giusto assetto in questo tortuoso viaggio.
Momento fondamentale della manifestazione è, però, il lunedì, detto "su lunisi de sa pudda" (il lunedì della gallina). Nei tempi passati in questa giornata gli amici che non partecipavano alla corsa appendevano circa a metà percorso delle galline vive a testa in giù. L'abilità dei cavalieri consisteva nel tagliare loro la testa durante la discesa al galoppo con un colpo secco di bastone. Con gli anni questa tradizione cruenta è stata abbandonata e sostituita con l'abbattimento di una gallinella in pezza appesa ad un filo trasversale alla strada. Sa Carrela si conclude quindi il martedì con la premiazione delle tre migliori pariglie, dei cavalieri che hanno buttato giù più galline e di tutti gli altri partecipanti.

La festa lussurgese non si esaurisce con la sola corsa equestre. Intorno ad essa infatti vengono organizzati molti eventi folkloristici ed enogastronomici di grande interesse: durante la settimana che anticipa Sa Carrela si esibiscono molti cori locali, alcuni tra i migliori della Sardegna e altri provenienti dal continente o dall'estero. Ai visitatori, giunti fin qui per ammirare gli spericolati cavalieri di Santulussurgiu, vengono offerti il vino prodotto nelle ultime vendemmie, l'acquavite locale e i culurzones dolci fatti con pasta di mandorle. L'ultimo giorno della festa poi la popolazione offre una grande cena a chiusura di questa festa spensierata e goliardica.


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Ultima modifica di altamarea il 13 Mar 2016 21:31, modificato 1 volta in totale
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Sant'Efisio a Cagliari

Efisio viene venerato in particolare a Cagliari, nella chiesa stampacina a lui intitolata, e a Pula, nella chiesetta romanica costruita sulla spiaggia di Nora dove, secondo la tradizione, il santo subì il martirio per decapitazione.

La Festa di sant'Efisio martire che si svolge nella città di Cagliari è una delle feste più importanti della Sardegna, e una tra le processioni a piedi più lunghe d'Europa. La festa cade il 1º Maggio. Da Cagliari la statua del santo viene trasportata verso Pula passando attraverso Sarroch e Villa San Pietro. Da Pula viene poi condotta a Nora dove si trova l'antica chiesa che prende nome del Santo. Dopo due giorni di preghiere la Statua riparte alla volta di Cagliari accompagnata in processione dai fedeli dopo aver percorso a piedi circa 80 km.

Nel 1656, dopo la terribile ondata di peste che sconvolse la città di Cagliari, la cerimonia in onore del santo assunse i fasti che a tutt'oggi si possono osservare. Durante l'epidemia di peste, nel 1652 i consiglieri cagliaritani legarono la città al Voto perpetuo di celebrare annualmente Sant'Efisio per ringraziarlo della salute ritrovata e fu scelto il mese di maggio proprio perché simbolo di rigenerazione della natura

http://2015.santefisio.it/santefisio-2/


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I Miliziani (le immagini in alto)

I miliziani, nel tradizionale abbigliamento composto da barrita rossa, corpetto rosso con bottoni dorati e asole bordate di nero, gonnellino, calzoni e gambali e armati di archibugio, scortano il cocchio nel viaggio sino a Nora, originariamente per proteggere il santo sia dai pellegrini stessi che dai pirati.

Questi erano un antico corpo militare ausiliario sardo sorto per la necessità di difendere il suolo isolano in mancanza di truppe regolari. Tutti i sudditi sardi avevano l'obbligo di servire nella milizia che prestava servizio ordinario, in caso di invasioni o di peste, e servizio straordinario di ordine pubblico nei centri urbani e nei villaggi.

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LA SAGRA DEL REDENTORE A NUORO

La sagra del Redentore è una festa tradizionale di Nuoro che viene celebrata l'ultima domenica di agosto, tra la città e la sua montagna, il monte Ortobene. Viene celebrata, oltre che con manifestazioni religiose, con un grande spettacolo di cavalieri e costumi di tutta la Sardegna.
La festa ricorda la posa della statua del Redentore eseguita dallo scultore calabrese Vincenzo Jerace e la successiva benedizione e consacrazione del monte Ortobene, avvenuta nel 1901. L'omaggio al Redentore ha infatti avuto origine con il Giubileo del 1900, in occasione del quale il Papa Leone XIII volle che venissero collocati sopra 19 vette d'Italia altrettante immagini di Gesù Redentore. La statua, realizzata interamente in bronzo, è stata eretta sulla cima del Monte Ortobene il 29 agosto del 1901, ed è frutto della fede e della generosità del popolo sardo che, quotandosi, raccolse i fondi necessari alla costruzione del monumento.


 
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CAVALCATA SARDA A SASSARI

La Cavalcata sarda è un'antica manifestazione culturale e folkloristica che si svolge a Sassari, solitamente la penultima domenica di maggio, che consiste nella sfilata a piedi, a cavallo o sulle traccas (i caratteristici carri addobbati con fiori e oggetti della quotidianità), di gruppi provenienti da ogni parte della Sardegna. I partecipanti indossano il costume caratteristico del luogo di provenienza, spesso arricchito da curatissimi ricami e gioielli in filigrana.

La manifestazione prosegue in pomeriggio nell'ippodromo cittadino dove cavalli e cavalieri si esibiscono in ardite pariglie e figure acrobatiche, per terminare in serata nella Piazza d'Italia con i canti e i balli tradizionali sardi, sulle note di launeddas e fisarmoniche, che si protraggono per buona parte della notte.

la prima edizione della Cavalcata risale al 1711, quando il Consiglio comunale di Sassari, sul finire della dominazione spagnola, deliberò di "far cavalcata" in omaggio al re Filippo V di Spagna. Alla manifestazione partecipò tutta la nobiltà sassarese, orgogliosa di mettere in mostra i propri costumi. La manifestazione che possiamo ammirare oggi invece nasce nel 1899 in occasione della visita dell'allora re d'Italia Umberto I accompagnato dalla moglie la regina Margherita di Savoia, giunti in città per l'inaugurazione del monumento a Vittorio Emanuele II che Giuseppe Sartorio aveva innalzato nella Piazza d'Italia. Di fatto fu un tributo al re da parte di tutto il popolo sardo.


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Ultima modifica di altamarea il 22 Mar 2016 22:53, modificato 6 volte in totale
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MADONNA DEI MARTIRI - FONNI (NU) - SAN GIOVANNI BATTISTA

La Festa della Madonna dei Martiri si svolge ogni anno la prima domenica di Giugno. La festa viene preceduta dalla novena che ha inizio la domenica precedente. I festeggiamenti civili hanno una durata di 4 giorni, si svolge la solenne processione, durante la quale la Madonna viene accompagnata per le vie del paese dai costumi tipici di Fonni e dei comuni di buona parte della Sardegna, da un suggestivo corteo equestre "S'istangiartu"(una peculiarità della Barbagia per la formazione militaresca)e dai fedeli.

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La festa di San Giovanni Battista, patrono del paese si svolge il 24 giugno, due i momenti importanti che caratterizzano la magia di questa festa:

la sfilata " de S'Istangiartu ", il " drappello d'onore di uomini a cavallo", che portano in processione per le vie del paese " Su Cohone de Vrores", un originale e suggestivo pane floreale di Fonni; questo pane rituale ha origini antichissime e il suo significato è ancora avvolto dal mistero;

"Sa Arrela e' Vrores " dove gli abili cavalieri in costume locale si esibiscono nelle tradizionali "parillas", dimostrazioni acrobatiche con i cavalli in corsa.

Il santo è festeggiato dai fonnesi da oltre 500 anni all'inizio dell'estate, e ancora oggi, il popolo chiama questa ricorrenza sa die de vrores (il giorno dei fiori). Tale denominazione dimostra (così come tante altre forme cultuali tradizionali) il sincretismo religioso fra il Cristianesimo e gli antichi riti solstiziali agro-pastorali di carattere paganeggiante. Uno dei tanti rituali, ormai scomparso da oltre trent'anni, consisteva nella raccolta dei rami di sambuco, ritenuti dotati di poteri magici e taumaturgici, e le cui foglie e fiori venivano sparsi lungo il percorso della processione in onore del Santo Patrono. Dal ramo di sambuco raccolto nella notte fra il 23 e il 24 giugno veniva ricavato un amuleto a forma di stella a cinque punte, denominato "Croce di Salomone". Questo, rivestito con panno, veniva applicato al collo del cavallo, nascosto sotto la criniera, per preservarlo dal malocchio. Altro rito non del tutto scomparso era quello de s'abba de vrores (acqua dei fiori) probabile riferimento all'acqua di sorgente. Se raccolta nella notte fra il 23 e il 24 giugno le si attribuivano poteri taumaturgici contro le coliche e i calcoli renali. Gruppetti di donne, anche di due persone, ancora oggi, infatti, nella notte del 23, su pispiru (il vespro), quando è in corso la "gara poetica" o altri spettacoli che si svolgono nella Pratha 'e Cressia, piazza San Giovanni, si recano in religioso silenzio alla fonte di Guttirillai, a duecento metri dalla Chiesa; appena dopo la mezzanotte riempiono i recipienti di acqua, per poi percorrere per tre volte di seguito in senso antiorario le stradette che circondano la Chiesa, recitando tre "Credo", tre "Ave Maria" e tre "Gloria". Fino a pochi decenni fa questa usanza veniva praticata anche dagli uomini. Fra le tradizioni che meglio si sono conservate e che caratterizzano la festività del Protettore di Fonni è la corsa dei cavalli, sa 'arrela de vrores. Questa, detta anche il palio di San Giovanni Battista, viene organizzata, oltre che dal Comitato dei festeggiamenti, dalla Società Ippica Fonnese con il patrocinio del Comune.

Nell'Ottocento "i bravi cavalieri "ha scritto Vittorio Angius - gareggiavano tra di loro di destrezza nel maneggio e buon governo dei cavalli in una frenetica "currilla" alla quale partecipavano anche cento pastori su cavalli montati a pelo. La corsa dei cavalli si svolgeva su un fondo di terra battuta, alla periferia del paese. I percorsi preferiti erano via Umberto, Viale del Lavoro, rione Coleo, la strada che porta al Govossai e infine l'attuale ippodromo comunale "San Cristoforo". Alla corsa che si svolgeva proprio il pomeriggio del 24 giugno partecipavano per lo più servi pastori. Questi in gruppi di due o tre si lanciavano al galoppo in acrobatiche pariglie ed i più abili ritti sulla groppa del cavallo davanti a due ali di folla ricevevano gli applausi più calorosi per lo loro balentía.

SU CO'ONE 'E VRORES

Nella parlata locale viene chiamato su co'one de vrores il pane dedicato alla festa dei fiori, ossia la primavera. Preparato in occasione della festa di San Giovanni Battista (24 giugno), viene confezionato da un'artigiana, l'unica rimasta a custodire quest'arte anticaSi tratta di una complessa elaborazione composta da una focaccia a forma di torta (40 cm. di diametro e una decina di centimetri di spessore), sulla quale vengono infilati dei bastoncini di canna che reggono 160 pugiones (uccelli) e cinque puddas (galline). Al centro della composizione si trova il nido (cinque centimetri di diametro) decorato con dei chicchi di grano finto e con sopra tre pugioneddos (uccellini). Attorno al nido, vi sono quattro puddas, una delle quali porta sul dorso un pugioneddu.
Il giorno della festa il pane verrà benedetto dal sacerdote appena prima della solenne Minsa 'antada (Messa cantata). Accanto alla statua di San Giovanni sarà portato a braccia in processione dal cassiere e da altri soci che gli daranno il cambio durante il tragitto. Il corteo, aperto dai "Cavalieri della Madonna dei Martiri", attraverserà le vie principali del paese al rintocco delle campane a festa. Al termine della processione i cavalieri di S'Istangiartu riportano su co'one 'e vrores in casa del cassiere. Questo pane rituale lo si può ammirare anche durante la corsa dei cavalli in onore del patrono, sa 'arrela de Santu Juvanni o meglio sa 'arrela de vrores. Innalzato al cielo da un cavaliere in costume che esegue la tradizionale pariglia stando in piedi sulla sella, su co'one suscita ancora oggi grandi emozioni e strappa gli applausi dei presenti. Durante la tradizionale 'arrela 'e vrores' la "Commissione di San Giovanni" offre sos pugioneddos ai cavalieri. Questi si lanciano nelle pariglie con in bocca l'asticella di supporto che tiene su pugione.
Le origini e il significato di questo rito restano però ancora avvolte nel mistero. Alcune storie sono arrivate fino ai nostri giorni e i vecchi le raccontano con dovizia di particolari.

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La Sardegna e i cavalli

Variopinte e multiformi, le tradizioni popolari sono tutt’oggi profondamente radicate nella cultura sarda e ne esprimono la forte identità. Processioni, tornei dalle atmosfere medievali, acrobazie spericolate a cavallo, carnevali antichi, sono alcuni dei riti che da secoli si ripetono con le stesse modalità. Non mancano poi altre sagre dedicate alle migliori specialità enogastronomiche locali. I sardi sono profondamente cristiani, ma molte feste e tradizioni si rifanno ad un passato pagano. Ad ogni modo, di feste e celebrazioni legate al culto cristiano e non, il calendario sardo ne è ricco. Non vi e' Paese che non interpreti e coniughi la profonda religiosita' con la passione innata per i cavalli, nell'Isola si corrono tanti Pali, dove si monta a pelo per citarne solo alcuni: Guasila, Fonni ma ve ne sono davvero tanti e percorrono tutta l'Isola.

I Sardi sono un popolo affascinato dai cavalli. E possono essere fieri dei loro nobili e prestanti cavalli, che si distinguono per coraggio, tenacia e intelligenza: si tratta dell’esemplare anglo–arabo sardo, detto anche brevemente “sardo”. I cavalli, allevati in Sardegna da XVI secolo, hanno nelle vene sangue arabo e spagnolo, incrociato con il cavallo selvatico sardo. Con la loro altezza al garrese di 160 cm non sono grande, e per questo motivo sono molto agili. Nel cavallo sardo troviamo un compendio di temperamento e bonarietà. È tenace e sicuro del suo incedere attraverso l’entroterra sardo. Ma anche nel recinto per l’addestramento o tra gli ostacoli impressiona per sue notevoli prestazioni e per il suo talento.

Ho cercato nel mio raccontarvi queste importanti manifestazioni popolari spero di esser riuscita a trasmettervi quanto ho riportato sopra sia negli scritti che video e immagini, ho scelto nel rappresentare lo spirito delle mie genti le sue espressioni piu' festose e che hanno un risalto maggiore nell'Isola, tralasciando di raccontare tante altre manifestazioni e sono veramente tante non vi e' Paese nell'Isola che non festeggi il suo Santo con corse di cavalli e processioni degne di esser viste e vissute perche' ognuna dona i suoi colori ed emozioni e si coglie il profondo spirito religioso che rinnova nei secoli questi sentiti festeggiamenti espressione di fervente devozione.

Grazie per l'attenzione, ma non e' finita qui ora scrivero' di ugual spirito percepito e sentito nelle genti cosacche che tanto sento affine alle genti dell'Isola di Sardegna, religiosità, ardimento,amore per i cavalli e intensi e profondi canti corali e poi balli e non ultimo il Cerchio.

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